Folk Tale

Liombruno

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
ATU810
LanguageItalian
OriginItaly

C'era una volta un pescatore disgraziato: da tre anni non riusciva a pescare neanche un'acciuga. Per campare, lui con sua moglie e quattro figli, s'era venduto ogni cosa e adesso era all'elemosina. Ma ogni giorno metteva la barca in mare e andava al largo, a tirare su le reti. Le ritirava senza neanche un granchio o un'arsella, e scoppiava in imprecazioni terribili.

Una volta, appunto, stava imprecando dopo aver tirato su la rete, quando in mezzo al mare gli si presentò il Nemico. - Che hai che ti fa arrabbiare, marinaio?

- Che volete che abbia? La mala sorte mia! Da questo mare non tiro su neanche un pezzo di corda da impiccarmi.

- Senti, marinaio, - disse il Nemico, - se fai un patto con me avrai pesca tutti i giorni e diventerai ricco.

- Che patto? - chiese il pescatore.

- Voglio tuo figlio, - chiese il Nemico.

Il pescatore prese a tremare: - Quale?

- Quello che non è ancora nato, ma nascerà tra breve.

Il pescatore pensò che già da molti anni non gli nascevano figli e non gliene sarebbero più nati.

Perciò disse: - Bene, accetto questo patto.

- Allora, - disse il Nemico, - quando tuo figlio avrà tredici anni me lo consegnerai. E già da oggi comincerai a fare pesca abbondante.

- E se questo mio figlio non nascesse?

- Avrai lo stesso le reti piene di pesce, sta' tranquillo, e a me non darai nulla.

- Questo volevo sapere. Allora firmo il contratto.

Concluso il patto e scomparso il Nemico via per il mare, il pescatore tirò le reti, e vennero fuori piene d'orate e tonni e muggini e polpi. E così l'indomani, e così il giorno dopo. Il pescatore si faceva ricco, e già diceva: "Gliel'ho fatta, al Nemico!" Ma ecco che gli nasce un figlio, bello che pareva un fiore, che sarebbe certo diventato il più bello e il più forte dei figli suoi. Gli mise nome Liombruno. Mentr'era in mezzo al mare gli si ripresentò il Nemico: - Ehi marinaio.

- In cosa posso servirvi?

- La promessa è debito, ricordati. Liombruno è mio.

- Signorsì. Ma tra tredici anni.

- Arrivederci tra tredici anni, - e scomparve.

Liombruno cresceva e vederlo diventare sempre più bello e forte per il povero padre era una pena, perché s'avvicinava il giorno.

Già i tredici anni dovevano esser compiuti, e il pescatore cominciava a sperare che il Nemico si fosse dimenticato del patto, quando, remando in mezzo al mare, ecco lo vide venirgli incontro, e dirgli: - Ehi, marinaio.

- Povero me, - disse il marinaio. - Sì, lo so, è il tempo. Dimmi cosa devo fare.

- Portamelo. Domani, - disse il Nemico.

- Domani, - disse il padre piangendo.

E l'indomani disse a Liombruno di portargli un cesto col desinare in una località deserta della spiaggia, dove lui sarebbe approdato con la barca, per poter ripartire per la pesca senza passar da casa. Il ragazzo andò, ma non vide nessuno; il padre s'era inoltrato in alto mare per non farsi trovare e lasciare Liombruno in mano al Nemico. Vedendo che suo padre non c'era, il ragazzo si sedette sulla riva ad aspettarlo, e per passare il tempo, con pezzetti di legno e sughero buttati lì dal mare faceva delle piccole croci e le disponeva attorno a sé in cerchio cantarellando. Stava appunto cantarellando in mezzo al cerchio di quelle croci, con una d'esse in mano, quando sul mare arrivò il Nemico. - Che fai, ragazzo? - disse.

- Aspetto mio padre.

- Tu devi venire con me, - disse il Nemico, ma non si faceva avanti, perché il ragazzo era tutto circondato da quelle croci.

- Disfa quelle croci, subito! - gli disse.

- Io no che non le disfo!

Ma il nemico cominciò a gettar fuoco dagli occhi, dalla bocca, dal naso e gli fece tanta paura che

Liombruno s'affrettò a disfare quelle croci, ma restava ancora quella che aveva in mano.

- Disfa anche quella, presto!

- No, non voglio! - diceva il ragazzo piangendo, di fronte al Nemico che continuava a buttar fuoco.

In quella, in mezzo al cielo apparve un'aquila. Fece un gran giro battendo l'ali sopra a Liombruno, calò su di lui, lo ghermì per le spalle con gli artigli e lo sollevò in cielo di sotto al naso del Nemico furente.

L'aquila trasportò Liombruno su un'alta montagna, e si trasformò in una bellissima fata. - Io sono la Fata Aquilina, - disse, - e tu vivrai con me e sarai il mio sposo.

Cominciò per Liombruno una vita principesca, nutrito e allevato dalle Fate, che lo istruirono nelle arti e nel maneggio delle armi. Dopo esser vissuto lassù parecchi anni, gli prese la nostalgia di casa e domandò alla Fata Aquilina il permesso d'andare a trovare suo padre e sua madre.

- Vai pure, e porta ai tuoi vecchi genitori la ricchezza, - disse la Fata, - ma per la fine dell'anno devi tornare da me. Tieni questo rubino: tutto quello che gli domanderai l'avrai. Ma devi guardarti dal rivelare che sono la tua sposa.

Al paese di Liombruno quando videro arrivare un cavaliere così riccamente armato e vestito la gente gli fece ala. E lo videro scendere di sella alla porta del vecchio pescatore. - Che volete da quella povera gente? - gli chiesero, ma Liombruno non diede loro retta.

Venne ad aprire la madre, e Liombruno, senza palesarsi, domandò alloggio. Grande fu la confusione di quei due poveri vecchi, a dover ospitare un signore dall'aria così nobile e ricca. - Da quando abbiamo perso il nostro adorato figlio minore, - gli dicevano, - non ce ne importa più nulla al mondo, e abbiamo lasciato andare in rovina questa casa.

Ma Liombruno dimostrava di sapersi accontentare di tutto, e a sera s'addormentò su un giaciglio, proprio come fosse a casa sua.

Tutti nella casa dormivano, quando Liombruno disse al rubino: - Rubino mio, trasforma questa povera capanna in un palazzo con mobili da signori e fa' diventare anche i nostri letti i più morbidi e comodi che ci siano -. E il rubino fece diventar realtà tutti questi desideri.

Al mattino, il pescatore e la moglie si svegliarono in un letto così morbido che ci affondavano dentro. - Dove siamo? Marito mio, dove siamo? - esclamò la vecchia, spaventata.

- Che ne so io, moglie mia? - disse il pescatore. - Il fatto è che ci sto proprio comodo!

E la loro meraviglia crebbe ancora quando aperta la finestra apparve una stanza da principi, e al posto dei loro stracci lasciati sulla sedia, vestiti ricamati d'oro e d'argento. - Ma dove siamo capitati?

- In casa vostra, - disse il cavaliere entrando, - e anche casa mia, perché io sono il vostro figlio Liombruno che credevate perso per sempre.

Così cominciò per il vecchio pescatore e la moglie una vita ricca e felice insieme al figlio ritrovato. Ma questi un giorno disse che se ne doveva andare, e dopo aver lasciato loro casse di gioielli e di pietre preziose, s'accomiatò promettendo di tornare a trovarli ogni anno.

Mentre cavalcava per raggiungere il castello della Fata Aquilina, passò in una città dove veniva gridato il bando d'una giostra. Chi vinceva la giostra per tre giorni di seguito, avrebbe avuto in moglie la figlia del Re. Liombruno, che aveva voglia di fare un po' il gradasso col rubino fatato che portava in dito, si presentò alla giostra il primo giorno, vinse tutti e fuggì senza dire il suo nome. Il secondo giorno si presentò di nuovo, riuscì ancora vincitore e ancora scomparve. Il terzo giorno il Re aveva fatto disporre rinforzi di guardie attorno alla giostra, e il vincitore fu fermato e condotto dinanzi alla tribuna reale.

- Cavaliere sconosciuto, - disse il Re, - ti sei presentato alla giostra e l'hai vinta. Perché allora non vuoi palesarti?

- Perdono, Maestà, non osavo venire alla vostra presenza. - Hai vinto, cavaliere, e ora devi sposare mia figlia.

- Mi duole ma non posso, Maestà!

- E perché mai?

- Maestà, vostra figlia è una giovane bellissima, ma io ho già una sposa che è bella mille volte più di vostra figlia.

Un brusio percorse la Corte a queste parole; la Principessa divenne rossa in viso come brace, e i nobili si misero a mormorare tra loro fitto fitto. Il Re, grave, impassibile, disse: - Cavaliere, perché noi possiamo ammettere la vostra vanteria, bisogna almeno che ci mostriate questa vostra consorte.

- Sì, sì, - fecero coro i nobiluomini, - anche noi vogliamo vederla questa bellezza.

Liombruno si rivolse al rubino: - Rubino, rubino mio, fa' comparire qui la Fata Aquilina.

Il rubino però poteva comandare a ogni cosa, non alla Fata Aquilina da cui proveniva la sua virtù magica. E la Fata, carica di sdegno perché Liombruno s'era vantato di lei, alla chiamata del rubino rispose mandando l'ultima delle sue serve.

Ma anche l'ultima delle serve della Fata Aquilina era così bella e riccamente vestita che il Re e tutta la Corte restarono a bocca aperta.

- Certo, è bella, la tua sposa, cavaliere! - dissero.

- Ma questa non è la mia sposa! - disse Liombruno. - Non è che l'ultima delle sue serve.

- E allora cosa aspetti a farci vedere la tua sposa? - disse il Re.

E Liombruno ripeté al rubino: - Rubino mio, voglio che la Fata Aquilina compaia qui davanti. Stavolta la Fata Aquilina mandò la sua prima serva.

- Ah, questa sì che è una bellezza! - dissero tutti, - questa è certo la tua sposa!

- No, - disse Liombruno. - È solo la sua prima serva.

- Finiamola! - disse il Re. - Ti comando di far venire fuori la tua vera sposa.

Liombruno s'era appena rivolto al rubino un'altra volta, che in uno splendore come di sole apparve la Fata Aquilina. I nobiluomini della Corte restarono abbagliati, fermi come statue, il Re chinò il capo, e la Principessa diede in singhiozzi e fuggì via. Ma la Fata Aquilina s'avvicinò a Liombruno e facendo atto di prendergli la mano gli portò via il rubino, esclamando: - Traditore! Tu m'hai perduta, e non mi ritroverai più a meno che tu non consumi sette paia di scarpe di ferro, - e sparì.

Il Re levò l'indice contro Liombruno: - Ho capito: tu hai vinto per virtù non tua, ma di quel rubino. Servi, bastonatelo! - e il cavaliere fu cacciato e bastonato, e lasciato pesto, in brandelli e appiedato in mezzo alla via.

Appena ebbe le forze per rimettersi in piedi, s'avviò tristemente verso la porta della città, quando, udendo un gran rumore di martelli, capì d'esser vicino alla fucina d'un fabbro, e v'entrò. - Maestro, - disse, - mi servono sette paia di scarpe di ferro.

- Cos'hai fatto, un patto col Padreterno di campare qualche centinaio d'anni per consumare tutte queste scarpe? Ma per me, te ne posso fare anche dieci, o quante ne vuoi.

- Che importa a te se le consumo! Basta che te le paghi, no? Fammi le scarpe e zitto.

Appena ebbe le scarpe le pagò, ne mise un paio ai piedi, tre nella tasca davanti e tre nella tasca di dietro d'una bisaccia e se ne andò. Venne notte che camminava in mezzo a un bosco. Udì voci altercare; erano tre ladri che litigavano per dividersi il bottino.

- Ehi, tu, brav'uomo! Vieni a farci da giudice. Ci rimettiamo a te per saper quel che ci tocca.

- Cosa vi dovete spartire?

- Una borsa che ogni volta che la si apre mette fuori cento ducati. Un paio di stivali che chi li calza corre d'un miglio avanti al vento. E un mantello che rende invisibile chi lo porta.

- Fatemi provare, prima, se devo giudicare. La borsa: sì, è come voi mi dite. Gli stivali: be', comodi son comodi. E il mantello, aspettate che allaccio questo bottone. Mi vedete? - Sì.

- E ora mi vedete?

- Sì, ancora.

- E adesso?

- No, ora non ti vediamo.

- E così non mi vedrete più, - disse Liombruno, e fatto invisibile dal mantello, correndo più del vento con gli stivali magici e portandosi via la borsa dei cento ducati, percorreva valli e selve.

Vide del fumo e arrivò a una casetta coperta di rovi, in una gola cupa e tutta precipizi. Bussò. - Chi è che picchia? - domandò una voce di vecchia.

- Un povero cristiano che cerca asilo.

La porta della casetta s'aperse, e una vecchia decrepita disse: - O povero ragazzo! Che tentazione t'ha presa di venirti a perdere quassù?

- Zia mia, - disse Liombruno, - io vado cercando la mia sposa, la Fata Aquilina, e non avrò pace finché non l'avrò trovata.

- E ora come facciamo, quando torneranno i miei figlioli? Ti vorranno mangiare.

- Perché mangiare? Chi sono i tuoi figlioli?

- Non lo sai? Questa è la casa dei Venti, e io sono la Voria, madre dei Venti, e tra poco i miei figli saranno di ritorno.

La Voria nascose Liombruno in un cassone. S'udì un rumore lontano come di alberi che si piegavano e rami che si schiantavano e un ululato tra i burroni della montagna. Erano i Venti che tornavano. Il primo fu Tramontana, tutto gelido e coi ghiaccioli che gli pendevano dagli abiti, poi Maestrale, Grecale, Libeccio e già s'erano messi a tavola quando arrivò l'ultimo figlio della Voria, Scirocco, che era quello che si faceva sempre più aspettare, e appena entrava lui subito si riscaldava la casa.

Tutti questi Venti, appena entrarono, la prima cosa che dicevano alla madre era: - Oh, che odore di carne umana! Qui c'è qualche cristiano in casa.

E la Voria: - Ma cosa vi sognate, che cristiano può mai arrivare in questi posti da stambecchi?

I Venti però continuavano ogni tanto a dare annusate in giro e a parlare d'odor di cristiani. La Voria, intanto, servì in tavola una polenta fumante e tutti i figli si misero a mangiare a quattro palmenti. Quando furono ben sazi, la Voria disse: - Era la fame che vi faceva sentire odor di cristiani, vero?

- Ora che siamo sazi, - disse Maestrale, - anche se avessimo un cristiano a portata di mano, non gli faremmo niente.

- Davvero non gli fareste niente?

- Davvero. Certo. Non lo toccheremmo neppure.

- Allora, se mi date la mano di San Giovanni di non fargli niente, vi faccio vedere un cristiano in carne e ossa.

- Cosa dici, mamma? Un uomo quassù? Ma come ha fatto? Sì, ti diamo la mano di San Giovanni di non fargli nessun male se ce lo fai vedere.

Così, tra gli sbuffi dei Venti che quasi non lo lasciavano in piedi, venne fuori Liombruno, e sotto le loro domande, raccontò la sua storia.

Quando seppero della ricerca della Fata Aquilina, ognuno rifletté se ne sapeva qualcosa, e a uno a uno dissero che davvero nei loro giri per il mondo non l'avevano mai incontrata. Solo Scirocco era rimasto zitto. - E tu, Scirocco, ne sai nulla? - disse la Voria.

- Certo che ne so qualcosa, - disse Scirocco. - Non sono mica addormentato come i miei fratelli, che non sanno trovar nulla. La Fata Aquilina è malata d'amore. Piange sempre, dice che il suo sposo l'ha tradita, e s'è ridotta ormai in fin di vita dal dolore. E io, da quel pendaglio di forca che sono, mi diverto a far chiasso tutt'intorno al suo palazzo, e spalancando finestre e balconi, e a buttarle all'aria perfino le lenzuola.

- O Scirocco mio bello! Tu mi devi aiutare! - disse Liombruno. - Devi insegnarmi la via per raggiungere questo palazzo. Sono io lo sposo della Fata Aquilina e non è vero che sono un traditore. Anch'io morirò di dolore se non la trovo.

- Non so come fare, - disse Scirocco, - perché è una via troppo complicata per potersi insegnare. Dovresti venire con me ma io vado tanto forte che nessuno mi può tenere dietro. Bisognerebbe portarti in collo, ma come faccio? Io sono d'aria e tu mi scivoli d'addosso.

- Non ti preoccupare, - disse Liombruno, - tu vai per la tua strada, e io non resterò mai indietro.

- Ah! Tu non sai come corro io! Se vuoi provare. Domattina all'alba partiremo.

La mattina Liombruno, con la borsa, gli stivali e il mantello parte con Scirocco. Scirocco ogni poco si voltava indietro e chiamava: - Liombruno! Oh, Liombruno!

E quello: - Oh, che vuoi? - Era lì davanti. E Scirocco tutte le volte ci restava male.

- Eccoci arrivati, - disse a un certo punto Scirocco. - Quello è il balcone della tua bella -. E Scirocco con una soffiata lo spalancò: Liombruno fu svelto a saltare dentro, avvolto nel suo mantello.

La Fata Aquilina era a letto, e una delle sue serve le diceva: - Padrona mia, come vi sentite? State un po' meglio?

- Meglio? Riprende a soffiare questo vento maledetto. Sono mezza morta.

- Non volete prendere qualcosa? Un po' di caffè, di cioccolata, una tazza di brodo?

- Nulla, non voglio nulla.

Ma la serva tanto disse e tanto fece che la persuase a prendere un po' di caffè. Portò la tazzina e la lasciò lì vicino al letto. Liombruno, invisibile, prese la tazzina e si bevve il caffè. La serva, credendo che la Fata avesse bevuto subito il caffè, portò anche la cioccolata, e Liombruno si bevve anche questa. La serva tornò con una tazza di brodo e un petto di piccione: - Signora padrona, visto che ha preso il caffè e la cioccolata è segno che le è tornato un po' d'appetito. Provi un po' questo brodo e questo petto di piccione, così riprenderà le forze.

- Ma che caffè? Che cioccolata? - disse la Fata. - Io non ho preso niente.

Le serve si guardarono tra loro come a dire: "Sta uscendo di senno".

Ma appena furono soli Liombruno si tolse il mantello: - Sposa mia, mi riconosci?

La Fata gli si buttò al collo e gli perdonò. Si giurarono il loro amore, le loro sofferenze d'esser stati tanto lontani. E diedero un gran banchetto nel palazzo, e i Venti furono tutti invitati a turbinare intorno in segno di festa.


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