Folk Tale

I tre racconti dei tre figli dei tre mercanti

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
ATU953
LanguageItalian
OriginItaly

C'erano una volta tre figli di tre mercanti e decisero d'andare a caccia tutti e tre. Andarono a dormire presto e a mezzanotte uno di loro si svegliò, vide il chiar di luna e lo credette chiar di sole; si vestì da caccia, prese i cani e andò a chiamare i suoi amici. Tutti e tre si misero in cammino ed era sempre notte. Si turbò il cielo, venne giù acqua a catini, i tre cacciatori non trovarono albero abbastanza frondoso per poterli riparare. Scorsero un lume: trovarono un palazzo.

- È notte, - disse una cameriera. - È l'ora questa di bussare?

E i cacciatori: - Non ci volete dar riparo?

La cameriera rispose: - Vado a dirlo alla padrona. Signora, ci sono tre, bagnati come pulcini; li faccio entrare? - Sì.

Così entrarono, sedettero davanti alla Signora che era bella e vedova, e disse: - Mettetevi questi vestiti del mio povero marito, mentre i vostri asciugano, e mangiate. Poi ognuno di voi deve raccontarmi una storia che gli è successa. Chi mi racconterà la più terribile, io lo sposerò.

Cominciò il più grande: - Dunque, Signora, io sono figlio d'un mercante. Una volta mio padre mi mandò per un commercio. Per strada, m'accompagnai con un uomo imbacuccato, che non avevo mai visto, e pareva conoscere i luoghi. A sera, mi disse: "Venite con me, so dove portarvi a dormire". Entrammo in una casa solitaria e la porta si chiuse alle mie spalle. Ero in uno stanzone in mezzo al quale c'era una gabbia di ferro, piena di cristiani chiusi dentro. "Chi siete?", domandavo a quei cristiani e loro a segni mi facevano capire che sarei stato chiuso dentro anch'io. Ma parlare non potevano, perché c'era un Gigante che faceva la guardia, ed era questo Gigante che faceva rapire i cristiani e li teneva chiusi. Così fui preso anch'io dalla mano del Gigante e cacciato nella gabbia. Domandai ai compagni: "E adesso?" "Zitto", mi dissero, "ogni mattina il Gigante prende uno di noialtri e se lo mangia". Così vivevamo, zitti e pieni di paura, e quando il Gigante avanzava la sua mano, ci stringevamo fitti fitti uno sull'altro. Il Gigante ogni tanto s'annoiava; allora prendeva una chitarra e suonava una canzone. Una volta, suonando, gli si ruppero le corde. "Se c'è qualcuno di voi qua dentro", disse, "che sa aggiustarmi la chitarra, gli do la libertà". Allora io, pronto, dissi a gran voce: "Signor Gigante, io faccio il chitarraio, mio padre è chitarraio, mio nonno è chitarraio, e tutto il mio parentado è chitarraio". Il Gigante disse: "Vediamo", e mi tolse dalla gabbia. Presi la chitarra; e rompi di qua, tira di là, finii per aggiustargliela. Allora il Gigante m'accarezzò il capo, e mi diede un anello. "Mettiti l'anello al dito e sarai libero", mi disse. Io mi misi l'anello e subito fui fuori dalla casa. Mi misi a correre nella direzione opposta e corri corri mi ritrovai ancora davanti a quella porta. "Ma sono sempre qua!", gridai. In quel momento sentii fare pss! pss!, alzai gli occhi e vidi a un'alta finestrella una bambina, che mi disse a bassa voce: "Butta via quell'anello se vuoi uscire!" Io provai ma dovetti esclamare: "Non mi esce più dal dito!" "Tagliati il dito! Presto!" "Non ho coltello!", feci io. "Eccone uno!", disse la bambina, e me lo porse. Vicino alla porta c'era un basamento di colonna: ci appoggiai la mano e mi mozzai d'un colpo il dito con l'anello. Allora potei correre via e ritrovar la strada buona, e ritornare a casa da mio padre.

La Signora aveva ascoltato tutto il racconto esclamando: - Ah, poverino! Ah, poverino! - e ora tirò un respiro di sollievo, e passò al secondo. Il secondo raccontò: - Dunque, Signora, una volta mio padre, mercante, mi diede una somma di danaro per un commercio. M'imbarcai e presi il largo, quando si levò una gran tempesta e dovemmo buttare a mare ogni mercanzia. Dopo la tempesta ci fu la bonaccia e restammo fermi in mezzo al mare. Le provviste finirono presto, e non avevamo più nulla da mangiare. Disse il capitano: "Signori miei, siamo alla fame: ora scriviamo tutti i nostri nomi e ogni mattina tireremo a sorte. Chi sarà sorteggiato, verrà ucciso e mangiato dagli altri". Pensi, Signora, allo spavento che ci invase, sentendo questa notizia! Ma se non volevamo morir di fame tutti, non c'era altro da fare. Ogni mattina, dunque si tirava a sorte; e a chi toccava, lo squartavamo, e ne mangiavamo un pezzetto ciascuno. Finimmo per restare in due: io e il capitano. L'indomani tirammo a sorte tra noi due. Io m'ero messo in testa che se toccava al capitano l'ammazzavo, ma se toccava a me non mi lasciavo ammazzare. Toccò al capitano, che, poveretto, allargò le braccia, e mi disse: "Sono qui, fratello". A me piangeva il cuore, ma mi feci forza e l'ammazzai. Lo tagliai in quattro pezzi: e uno dei quarti l'appesi alle corde. Venne un'aquila e si portò via quel quarto di cristiano. Appesi un altro quarto; tornò l'aquila e lo prese. Ero disperato. Anche il terzo quarto me lo mangiò l'aquila. Quando non mi restava che l'ultimo e l'aquila s'abbassò per prenderlo, io m'afferrai alle sue zampe. L'aquila volò e io mi tenevo appeso, via per il cielo. Passò accosto a una montagna, e io mi buttai. Sdirupa di qua, sdirupa di là, mi salvai la vita e tornai a casa.

- Poveretto! Poveretto! - diceva la Signora. - Anche questa è una storia ben terribile. Ora tocca a voi, - disse al terzo.

- Signora mia, la mia storia fa rizzare i capelli in testa. Dovete sapere che anch'io fui mandato da mio padre per mercanzia. A sera, presi alloggio a una locanda. Dopo cena m'andai a coricare, e poiché la sera dico sempre le mie devozioni, mi inginocchiai accanto al letto per dirle. Mentre pregavo, e m'inchinavo per baciare terra, vidi un uomo sotto il letto. Guardai meglio: era un morto lì stecchito. Pensai: "Questo è un uomo ucciso ieri sera, e questo è un posto dove hanno abitudine di ammazzar la gente che dorme". Cosa feci allora? Presi il morto e lo coricai nel letto, e io mi distesi sotto il letto, senza tirar il fiato. Passò un'ora o due, e sentii aprirsi la porta. C'era il locandiere con uno scalpello in mano, e lo sguattero con un martello; dietro veniva la moglie con un lume: "Questo dorme della grossa", dissero. "Sotto!" Il locandiere posò lo scalpello in testa al morto, lo sguattero diede un colpo di martello, e la moglie disse: "Ora prendetelo e mettetelo sotto al letto e quello di ieri notte buttiamolo dalla finestra". Sotto la finestra, c'era un gran burrone, e io mi sentii già sfracellato. Ma il locandiere disse: "Lasciamo tutto come sta, per stanotte. Domani, con la luce, vedremo". Se ne andarono, ed io tirai il fiato. Mi misi ad aspettare il giorno. Appena venne il sole, mi affacciai alla finestra, a far segni verso i paesi di là del burrone. Fu chiamata la Giustizia, venne alla locanda, mi liberò e arrestò il locandiere e tutti i suoi.

La Signora si mise a pensare quale delle tre storie era la più terribile. E pensa che ti pensa, non ha ancora deciso.


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