Folk Tale

Il Drago dalle sette teste

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
ATU303
LanguageItalian
OriginItaly

C'era una volta un uomo pescatore, la cui moglie, benché sposata da tempo, non gli faceva figli. Un bel giorno il pescatore se n'andò con le sue reti a pescare nel lago vicino, e gli riuscì d'acchiappare un pesce di gran bellezza e grossezza. Appena tratto fuor dell'acqua, il pesce prese a supplicare l'uomo, che si contentasse di lasciarlo andar via, e in cambio lui gli prometteva d'insegnargli uno stagno in quei dintorni, dove avrebbe potuto in un momento fare una pesca ben più ricca. A sentir parlare un pesce, il pescatore s'impaurì, e senza starci a pensare diede libertà alla bestia, che subito sparì giù nell'acqua. Ma il pescatore, andato a quello stagno, in due o tre retate di pesci, ne acchiappò tanti, che tornò a casa più carico d'un ciuco.

La moglie volle sapere come gli era andata, da portare a casa tutto quel pesce; e lui per filo e per segno le disse ogni cosa. La donna, a quella nuova, imbizzita contro il marito, fa: - Mammalucco! Ti sei lasciato scappare un pesce così bello! Bada di ritrovarlo domani, che lo voglio qui, e voglio ammannirlo in un intingolo che ci caverà la voglia di pesce per un pezzo.

L'indomani, il pescatore, per far contenta la moglie, torna al lago e butta la rete, e di nuovo tira su il pesce che parla: ma anche stavolta l'uomo si lasciò commuovere dalle suppliche e dai pianti del pesce e gli diede la via, e poi di pesca ne ebbe quanta ne volle nel solito stagno. La moglie però, quando il pescatore tornò e le raccontò, uscì fuori dai gangheri, mise le mani sui fianchi e gliene disse di tutti i colori: - Bue! Uomo di stoppa! Non t'accorgi che è la fortuna che vuol venirti incontro a tutti i costi? E tu la disprezzi così? O domani mi porti il pesce o te ne farò pentire io. Inteso?

A bruzzolo, riecco il pescatore al lago; butta le reti, tira, e ci ritrova dentro il pesce. Stavolta non stette lì a badare a pianti né a parole: corse a casa filato e consegnò il pesce ancora vivo nelle mani della moglie che lo gettò in un catino d'acqua fresca. Si misero tutt'e due intorno al catino, a riguardare quel pesce quant'era grosso e a ragionare qual era il miglior modo di cucinarlo. Allora il pesce, fatto capolino fuor dall'acqua, disse: - Visto che per me non c'è rimedio e mi tocca di morire, lasciate almeno che faccia testamento.

Il pescatore e la moglie gliel'accordarono e il pesce così parlò: - Quando sarò morto, cotto e tagliato in due, la mia carne se la mangi la donna, il brodo della lessatura datelo da bere alla cavalla, buttate la mia testa alla cagna, e le tre lische più grosse piantatele ritte nell'orto. Il fiele appendetelo a una trave in cucina. Avrete dei figlioli, ma quando a qualcuno di questi figli succederà qualcosa di brutto, il fiele suderà sangue.

Dopo ammazzato e cotto il pesce, i due seguirono a puntino quel che lui aveva detto; e accadde che la donna, la cavalla e la cagna figliarono, tutte e tre la stessa notte e la cagna fece tre cagnolini, la cavalla tre puledri, e la donna tre bambini maschi. Il pescatore disse: - Guarda un po': in una notte sono nate nove persone! - I gemelli si somigliavano tanto tra loro che non era possibile riconoscerli se non gli si metteva un segno addosso. Dalle lische piantate nell'orto, invece, vennero su tre belle spade.

Quando i ragazzi furono giovanotti grandi, il babbo diede loro un cavallo, un cane e una spada per uno, e di suo ci aggiunse uno schioppo da caccia: ma presto il primogenito si stancò di starsene a casa in povertà e volle andare per il mondo in cerca di fortuna. Monta a cavallo, prende il cane con sé, la spada e lo schioppo ad armacollo, saluta tutti quelli di casa e se ne va. Prima di partire dice ai fratelli: - Caso mai il fiele appeso al trave sanguinasse, venite a cercarmi, perché io sarò morto o mi sarà successa qualche disgrazia. Addio -. E via al galoppo.

Il primogenito, dopo aver cavalcato molti giorni per paesi ignoti, giunse alle porte d'una gran città tutta abbandonata. Entrò: gli abitanti vestivano tutti di nero e in faccia erano tristi. Va a un'osteria, si mette a un tavolo a mangiare e domanda all'oste il perché di tutto quel nero. L'oste gli disse: - Come? Non sapete che c'è un Drago con sette teste che ogni giorno a mezzogiorno viene fin sul ponte e se non gli si dà una ragazza da mangiare entra in città e divora quanta gente gli capita? Tirano a sorte ogni giorno: oggi è toccato alla figlia del Re e a mezzogiorno bisogna che sia sul ponte per farsi mangiare. Il Re però ha messo un foglio alla colonna, e c'è scritto che la dà in moglie a chi riesce a liberarla.

Il giovane disse: - E non ci sarà verso di salvare la figlia del Re e liberare la città da un tal flagello? Io ho una forte spada, un forte cane e un forte cavallo. Andiamo, conducetemi dal Re.

Subito condotto alla presenza di Sua Maestà, il giovane gli chiese il permesso di combattere il Drago e d'ammazzarlo.

Ma il Re gli rispose: - Giovanotto ardito, sappi che molti prima di te hanno tentato l'impresa, e ci han rimesso la vita, poveri sciagurati. Ma se a te garba di rischiarla e vinci il Drago, avrai la mia figlia in sposa ed erediterai il regno alla mia morte.

Per nulla impaurito il giovane prese il cane ed il cavallo e si andò a sedere sulla spalletta del ponte.

A mezzogiorno preciso arrivò la figlia del Re tutta vestita di seta nera, col suo seguito. Quando furono a metà del ponte, quelli del seguito tornarono indietro piangendo e lei rimase lì, sola sola. Si voltò e vide seduto sul ponte uno con un cane. Gli disse: - Galantuomo, che fate qui? Non lo sapete che ora viene il Drago a mangiarmi e se vi trova mangerà voi pure?

- Giustappunto, - rispose il giovane, - sono qui per liberarvi e per sposarvi.

Piangendo, la Principessa disse: - Disgraziato, va' via, se no il Drago ne avrà due da divorare, oggi, invece di me sola. È un Drago tutto pieno di incantesimi. Come vuoi fare ad ammazzarlo?

Il giovane, che a guardare la Principessa se n'era innamorato, disse: - Tant'è, ormai per amor vostro voglio correre questo rischio, e come sarà sarà.

Avevano appena finito questi ragionamenti, che l'orologio del palazzo scoccò il mezzogiorno. La terra cominciò a ballare, si spalancò una buca e di là, tra mezzo il fuoco e il fumo, scaturì il Drago dalle sette teste; e senza tentennare, con le sette bocche aperte s'avventò sulla Principessa, fischiando tutto dalla gioia perché aveva visto che quel giorno gli era stato preparato un pasto di due corpi umani. Ma il giovane non stette lì a pensarci sopra: salta di un balzo a cavallo, sprona contro il Drago, gli aizza contro il cane, e con la spada comincia a dar giù a dritto e a rovescio, tanto che una dopo l'altra gli tagliò sei teste. Allora il Drago domandò un po' di riposo; e il giovane, che era anche lui senza fiato, disse: - Riposiamoci pure.

Ma il Drago, la testa che aveva la sfregò per terra e tornò ad attaccarsi tutte le altre sei. Quando vide questo il giovane capì che doveva tagliarle tutte e sette in una volta; e ci si buttò tanto di slancio che a furia di spadate dritte e rovesce ci riuscì. Poi con la spada tagliò tutt'e sette le lingue e chiese alla figlia del Re: - Ce l'hai un fazzoletto da naso?

La Principessa glielo diede e il giovane ci mise dentro le sette lingue. Poi rimontò a cavallo e se n'andò a un albergo per cambiarsi i vestiti tutti polverosi e insanguinati e comparire alla presenza del Re pulito e in ordine.

Vuole il caso che in una casuccia vicino al ponte abitasse un carbonaio di gran furbizia e cattiveria, che aveva visto da lontano il combattimento. Pensò il carbonaio: "Approfittiamo di questo bonaccione che lascia le teste del Drago per terra e perde il tempo a vestirsi per far bella figura". Andò, raccattò le teste mozzate, le nascose dentro un sacco e brandendo un coltellaccio insanguinato del sangue del Drago, corse dal Re e gli disse: - Sacra Corona! Ecco davanti a voi l'ammazzatore del Drago: e queste sono le sue sette teste che col coltello che vedete gli staccai dal corpo a una a una. Dunque, Sacra Corona, mantenetemi la parola reale e datemi vostra figlia in sposa!

Il Re a vedersi davanti quel brutto ceffo rimase male. Nella storia non ci vedeva chiaro: sospettò perfino che il giovane ardito fosse stato divorato e il carbonaio fosse giunto all'ultimo quando il Drago era già sfinito e gli avesse dato solo il colpo di grazia. A ogni modo la parola reale non si cambia, e gli toccò replicare: - Se proprio le cose stanno così, mia figlia è tua: pigliatela pure.

In quel mentre la Principessa, nella sala d'udienza, a sentire quel contratto cominciò a gridare, che il carbonaio era un bugiardo e non era lui ad aver ucciso il Drago, bensì era quel giovane che sarebbe ora venuto a Palazzo. Nacque un gran battibecco: ma il carbonaio tenne duro, e mostrava le teste nel sacco come prova. Il Re, visto che il contrassegno c'era, non si poté disdire, e dovette ordinare alla figlia di chetarsi, e prepararsi pure a diventare la sposa di quel carbonaio.

Subito il Re comandò che fosse dato al popolo l'annunzio, e si preparassero tre giorni di corte bandita con tre grandi conviti, e all'ultimo si sarebbero celebrate le nozze. Intanto il vincitore vero del Drago venne a Palazzo reale: ma al portone le guardie non vollero farlo passare a nessun costo, e nello stesso momento egli sentì il banditore che dava per le piazze l'annunzio degli sponsali della Principessa con il carbonaio. Il giovane ebbe un bel protestare, chiese che lo lasciassero parlare col Re: le guardie non gli diedero neanche ascolto, stettero dure come massi; finché non apparve il carbonaio e disse che il giovane fosse cacciato via di forza senza indugio. Al poveretto non restò che andarsene con tutta la sua rabbia in corpo; tornò all'albergo e si mise ad almanaccare qualcosa per impedire quelle nozze, scoprire l'inganno e farsi riconoscere come l'uccisore del Drago.

A Corte imbandirono la mensa e tutta la nobiltà fu invitata. Il carbonaio lo misero vicino alla Principessa, tutto vestito di velluto, e poiché era piccolino di statura gli misero sette cuscini sotto il sedere, così sembrava un po' più alto.

Il giovane, nell'albergo, pensa che ti pensa, chiamò il cane accucciato ai suoi piedi e gli disse: - To', Fido, corri, va' dalla figlia del Re, falle le feste, a lei sola, ti raccomando, e prima che comincino a mangiare butta all'aria la mensa e scappa. Ma bada di non farti acchiappare.

Il cane, che capiva quando il padrone parlava, partì di corsa e saltò con le zampe in grembo alla Principessa, e bramiva, e le dava gran linguate alle mani e al viso. Lei lo riconobbe e si rallegrò molto di vederlo, e carezzandolo gli chiedeva in un orecchio dove fosse il suo liberatore. Ma il carbonaio, insospettito di tutte queste carezze, voleva far scacciare il cane dalla sala. Ecco che mettono la zuppa in tavola; il cane allora addenta una cocca della tovaglia e giù: tira per terra la tovaglia con tutto quel che c'era sopra, in un mare di cocci. Poi via a gambe levate per le scale, che nessuno poté raggiungerlo né vedere da che parte andasse. Tra gli invitati c'era uno scompiglio da non si dire. Dovettero sospendere il banchetto e la cosa fece assai rumore.

Quando fu il secondo banchetto il giovane disse al cane: - To', Fido, corri e fa' come ieri -. A rivedere il cane, la Principessa si mise a ridere dalla contentezza, ma il carbonaio, pieno di timore e sospetto, voleva assolutamente che il cane fosse cacciato a suon di busse. La Principessa invece lo difese con tutte le sue forze, e il carbonaio, per quanto di malanimo, non osò contraddirla. Anche stavolta, portata la zuppa in tavola, il cane lesto addenta la tovaglia, tira in terra ogni cosa e scappa più del vento. Guardie e servitori, dietro; ma ebbero un bell'affannarsi, lo persero di vista.

Al terzo banchetto, disse il giovane: - To', Fido, corri, e fa' lo stesso delle altre volte; ma stavolta, lasciati inseguire fin qui da me.

Il cane eseguì tutto a puntino, e le guardie dietro il cane arrivarono fino alla stanza del giovane, lo arrestarono e condussero davanti al Re. Il Re lo riconobbe: - Ma non sei tu quello che voleva salvare mia figlia dal Drago?

- Sì, sono io, Maestà, e l'ho salvata.

A quelle parole il carbonaio cominciò a vociare: - Non è vero! Il Drago l'ho ammazzato io con le mie mani: tant'è vero che ho portato io le sette teste! - e dié ordine che le sette teste fossero deposte ai piedi del Re.

Il giovane senza scomporsi si rivolse al Re e gli disse: - Se lui ha portato le sette teste, io per non caricarmi tanto peso ho portato solo le lingue. Guardiamo un po' se queste teste hanno le loro sette lingue nella bocca.

Le sette lingue non ce le trovarono. Allora il giovane tirò fuori di tasca il fazzoletto dove le aveva involte, e per filo e per segno raccontò com'era andata. Il carbonaio però non voleva darsi per vinto: pretese che le lingue si dovessero misurare ognuna al suo posto per vedere se ci stavano; e ogni volta che la prova riusciva, dalla rabbia scaraventava via di sotto il sedere uno dei sette cuscini, e quando fu all'ultimo sparì sotto la tavola e scappò. Ma lo presero subito e per comando del Re seduta stante fu impiccato nella piazza.

Tutti allegri, Re, sposa e convitati si sedettero a mensa a far baldoria, e conclusero le nozze. Poi venne notte, e ognuno andò a dormire. Appena giorno, il giovane si levò, aperse la finestra e vide dirimpetto una gran selva piena d'uccelli, e gli venne voglia d'andarvi a caccia. Ma la moglie lo scongiurò di non andare, perché era una selva incantata, e chi c'entrava non tornava più a casa. Il giovane, che più gli si diceva d'un pericolo, più gli veniva voglia di provare, prese il cavallo, il cane, la spada e lo schioppo, e se ne partì. Aveva già cacciato molti uccelli, quando si levò un temporale che pareva il finimondo, con lampi tuoni fulmini e saette, e l'acqua che veniva giù a bocca di barile. Il giovane, molle fino all'ossa, persa la strada con la notte che era scesa, vide una grotta e vi si rifugiò. Era una grotta piena di statue, statue di marmo bianco in diversi atteggiamenti. Ma il giovane stanco e fradicio non ci badò troppo; radunò della legna secca e con l'acciarino accese un po' di fuoco per asciugare i panni e cuocere gli uccelli.

Di lì a un po', nella grotta venne a cercar rifugio una vecchierella, fradicia di pioggia da capo a piedi, battendo i denti intirizzita, e pregò il giovane di lasciarla riscaldare al fuoco. Lui disse: - Venite pure, nonnina, che mi terrete compagnia.

La vecchierella si sedette e offrì al giovane del sale per gli uccelli arrostiti, della crusca per il cavallo, un osso per il cane e della sugna per ungere la spada, ma appena il giovane, il cavallo e il cane ebbero mangiato e la spada fu unta, tutti diventarono statue di sale, lì ferme dov'erano.

La Principessa, non vedendo tornare più suo marito, lo credette morto, e il Re addolorato diede ordine che la città si vestisse di nero.

Intanto nella casa del pescatore, dal momento in cui il figlio primogenito era partito, ogni giorno il padre e i fratelli guardavano il fiele appeso al trave. Un giorno trovarono la cucina tutta allagata di sangue che pioveva giù dal fiele. Allora il secondogenito disse: - Il mio fratello maggiore o è morto o gli è successa una gran disgrazia. Vado a cercarlo. Addio -. Montò a cavallo, col cane, la spada e lo schioppo ad armacollo, e via al galoppo.

Dappertutto dove passava, il secondogenito domandava alla gente di suo fratello. - Uno che somiglia a me l'avete visto?

E tutti ridevano: - O bella! Non siete voi lo stesso dell'altra volta?

Così il giovane capiva che anche suo fratello maggiore era passato di lì, e andava avanti. Arrivò alla città reale, e quando la gente, tutta vestita di nero lo vide entrare, fece gran meraviglie. - Ma è lui, è lui! Allora è salvo! Evviva! Evviva il nostro Principe!

Lo condussero dal Re, e tutta la Corte, Principessa compresa, lo presero per il primogenito. Il Re gli fece una ramanzina che non finiva più e il secondogenito, facendo finta di niente, si scusò e fece la pace anche con la Principessa. E si seppe così ben rigirare tra domande e risposte, che riuscì a sapere tutto di suo fratello, delle sue nozze e della sparizione.

La notte andando a letto, il secondogenito si tolse la spada e la mise di taglio in mezzo al letto, dicendo alla Principessa che avrebbero dormito una da una parte uno dall'altra. La Principessa non capì bene perché, ma andarono a letto e s'addormentarono.

A bruzzolo, appena levato, anche lui aperse la finestra, e vide la selva lì di fronte e disse: - Voglio andare a caccia laggiù.

E la Principessa: - Ma non ti basta il pericolo che hai scansato una volta e l'ansia che m'hai fatto soffrire?

Lui non le diede retta e partì con cavallo cane spada e schioppo. Quel che era successo al primogenito successe anche a lui, e restò anche lui nella grotta tramutato in statua: e la Principessa non vedendolo tornare pensò che stavolta era perso per davvero, e la città di nuovo si vestì a lutto per comando del Re.

In casa del pescatore intanto la cucina s'era nuovamente allagata di sangue, colato giù dal fiele appeso al trave. Il terzogenito non stette a pensarci su e partì alla ricerca dei fratelli, col cavallo il cane la spada lo schioppo, e via al galoppo. Cammin facendo anche lui domandava: - Sono mai passati di qui due giovani tali e quali come me?

E la gente: - Che tipo buffo siete! Venite sempre a chiedere la stessa cosa? Ma non siete sempre voi?

Che matto!

Così il terzogenito sapeva d'esser sulla strada buona e arrivò alla città, dove fu ricevuto con gran festa, come un morto risuscitato, e il Re la Principessa la Corte lo credettero sempre il primogenito. Lui pure andò la sera a letto con la Principessa e mise la spada in mezzo al letto e dormirono lui da una parte e lei dall'altra. E la mattina dalla finestra vide la selva e disse: - Vado a caccia.

La Principessa, ancora una volta a disperarsi: - Vuoi proprio andare in perdizione? È questo il bene che mi vuoi? Farmi morire di paura ogni volta!

Ma il terzogenito non vedeva l'ora di ritrovare i fratelli e partì. Rifugiatosi nella grotta per il temporale, guardò le statue una per una e vi riconobbe i due fratelli. Disse tra sé: "Qui c'è certo qualche inganno, starò con gli occhi aperti".

Aveva appena acceso il fuoco e stava arrostendo gli uccelli quando comparve la vecchina e tutta cerimoniosa gli chiese che la lasciasse scaldarsi, ma il giovane le lanciò un'occhiata storta e le disse: - Fatti in là, brutta strega, che accanto a me non ti ci voglio.

La vecchierella parve scombussolata a quell'accoglienza, e piagnucolando rispose: - Ma non avete proprio carità del prossimo? Eppure io ho da offrirvi come cenar meglio: del sale per gli uccelli arrosto, crusca per il cavallo, un osso per il cane e perfino della sugna per ungere le armi che non arrugginiscano.

Il giovane allora: - Vecchiaccia malandrina, a me non me la fai! - grida e le salta addosso, la butta per terra e con un ginocchio la tiene lì inchiodata, le strizza la gola con la mano sinistra, e con la destra sfodera la spada e gliela mette sul collo, dicendo a denti stretti: - Stregaccia infame! O mi rendi i fratelli o ti scanno in questo preciso momento!

La vecchierella cercava ancora di protestare che non aveva fatto mai male a nessuno, ma il giovane stava lì lì per segarle le canne della gola; sicché la vecchierella confessò tutto l'incantesimo e gli promise che l'avrebbe obbedito, pur d'aver salva la vita, e subito trasse di tasca un vaso d'unguento per ridar la vita alle statue. Il giovane di lasciarla andare non ci pensò nemmeno, e con la scimitarra alle reni la obbligò a far lei l'unzione delle statue. E una a una tutte le statue ridiventarono persone vive e la grotta ne fu piena. I fratelli appena si videro s'abbracciarono stretti e allegri, e tutti gli altri non sapevano trovar parole bastanti a ringraziare il terzogenito. In quel trambusto la strega cercò di svignarsela e quasi ci riusciva, se i tre fratelli non se ne fossero accorti. Le corsero addosso e la squartarono senza misericordia; l'incantesimo della selva fu rotto e il primogenito le prese il vaso dell'unto che rendeva la vita ai morti.

Nel ritorno alla città reale, tutti in un branco quei liberati dall'incanto parlavano tra loro, e i tre fratelli si raccontavano quel che era loro accaduto. Ma il primogenito quando sentì che gli altri fratelli avevano dormito con la Principessa sua moglie, fu preso dalla rabbia della gelosia, sfoderò la spada, e li ammazzò.

Aveva appena commesso questo delitto, che gli nacque in cuore un gran rimorso e voleva a ogni costo rivolgere la spada contro la sua gola, benché tutti quegli altri signori lo tenessero. Allora si ricordò di quel vaso d'unguento, unse le ferite dei fratelli morti ed ecco che s'alzano in piedi risanati e vispi come se nulla fosse stato. Pieno d'allegria il primogenito chiese loro perdono e loro gliel'accordarono dicendo che sbagliava, e spiegandogli della spada in mezzo al letto. E seguitarono il cammino finché giunsero dal Re.

Chiamarono la Principessa che dal gran piangere era diventata secca come una lucertola e che rimase confusa perché dei tre non sapeva più quale fosse suo marito. Ma il primogenito si fece riconoscere e presentò i fratelli, che il Re fece sposare a due figlie di quei nobiluomini liberati e li nominò Impiegati di Corte e fecero venire a Palazzo anche i vecchi pescatori.


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