Folk Tale

Bellinda e il Mostro

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
ATU425
LanguageItalian
OriginItaly

C'era una volta un mercante di Livorno, padre di tre figlie a nome Assunta, Carolina e Bellinda. Era ricco, e le tre figlie le aveva avvezzate che non mancasse loro niente. Erano belle tutte e tre, ma la più piccola era d'una tale bellezza che le avevano dato quel nome di Bellinda. E non solo era bella, ma buona e modesta ed assennata, quanto le sorelle erano superbe, caparbie e dispettose, e per di più sempre cariche d'invidia.

Quando furono più grandi, andavano i mercanti più ricchi della città a chiederle per spose, ma

Assunta e Carolina tutte sprezzanti li mandavano via dicendo: - Noi un mercante non lo sposeremo mai.

Bellinda invece rispondeva con buone maniere: - Sposare io non posso perché sono ancora troppo ragazza. Quando sarò più grande, se ne potrà riparlare.

Ma dice il proverbio: finché ci sono denti in bocca, non si sa quel che ci tocca. Ecco che al padre successe di perdere un bastimento con tutte le sue mercanzie e in poco tempo andò in rovina. Di tante ricchezze che aveva, non gli rimase che una casetta in campagna, e se volle tirare a campare alla meglio, gli toccò d'andarcisi a ritirare con tutta la famiglia, e a lavorare la terra come un contadino. Figuratevi le boccacce che fecero le due figlie maggiori quando intesero che dovevano andare a far quella vita. - No, padre mio, - dissero, - alla vigna noi non ci veniamo; restiamo qui in città. Graziaddio, abbiamo dei gran signori che vogliono prenderci per spose.

Ma sì, valli a rincorrere i signori! Quando sentirono che erano rimaste al verde, se la squagliarono tutti quanti. Anzi, andavano dicendo: - Gli sta bene! Così impareranno come si sta al mondo. Abbasseranno un po' la cresta -. Però, quanto godevano a vedere Assunta e Carolina in miseria, tanto erano spiacenti per quella povera Bellinda, che non aveva mai arricciato il naso per nessuno. Anzi, due o tre giovinotti andarono a chiederla in sposa, bella com'era e senza un soldo. Ma lei non voleva saperne, perché il suo pensiero era d'aiutare il padre, e ora non poteva abbandonarlo. Infatti, alla vigna era lei ad alzarsi di buonora, a far le cose di casa, a preparare il pranzo alle sorelle e al padre. Le sorelle invece s'alzavano alle dieci e non muovevano un dito; anzi ce l'avevano sempre con lei, quella villana, come la chiamavano, che s'era subito abituata a quella vita da cani.

Un giorno, al padre arriva una lettera che diceva che a Livorno era arrivato il suo bastimento che si credeva perso, con una parte del carico che s'era salvato. Le sorelle più grandi, già pensando che tra poco sarebbero tornate in città e sarebbe finita la miseria, quasi diventavano pazze dalla gioia. Il mercante disse: - Io ora parto per Livorno per vedere di recuperare quel che mi spetta. Cosa volete che vi porti in regalo?

Dice l'Assunta: - Io voglio un bel vestito di seta color d'aria.

E Carolina: - A me invece portatemene uno color di pesca.

Bellinda invece stava zitta e non chiedeva niente. Il padre dovette domandarle ancora, e lei disse: -

Non è il momento di far tante spese. Portatemi una rosa, e sarò contenta -. Le sorelle la presero in giro, ma lei non se ne curò.

Il padre andò a Livorno, ma quando stava per metter le mani sopra alla sua mercanzia, saltarono fuori altri mercanti, a dimostrare che lui era indebitato con loro e quindi quella roba non gli apparteneva. Dopo molte discussioni, il povero vecchio restò con un pugno di mosche. Ma non voleva deludere le sue figlie, e con quei pochi quattrini che gli rimanevano comprò il vestito color aria per Assunta e il vestito color pesca per Carolina. Poi non gli era rimasto neanche un soldo e pensò che tanto la rosa per Bellinda era così poca cosa, che comprarla o no non cambiava nulla.

Così, s'avviò verso la sua vigna. Cammina cammina, venne notte: s'addentrò in un bosco e perse la strada. Nevicava, tirava vento: una cosa da morire. Il mercante si ricoverò sotto un albero, aspettandosi da un momento all'altro d'essere sbranato dai lupi, che già sentiva ululare da ogni parte. Mentre stava così, voltando gli occhi, scorse un lume lontano. S'avvicinò e vide un bel palazzo illuminato. Il mercante entrò. Non c'era anima viva; gira di qua, gira di là: nessuno. C'era un camino acceso: zuppo fradicio com'era, il mercante ci si scaldò, e pensava: "Adesso qualcheduno si farà avanti". Ma aspetta, aspetta, non si faceva viva un'anima. Il mercante vide una tavola apparecchiata con ogni sorta di graziadidio, e si mise a mangiare. Poi prese il lume, passò in un'altra camera dov'era un bel letto ben rifatto, si spogliò e andò a dormire.

Al mattino, svegliandosi, restò di stucco: sulla seggiola vicino al letto c'era un vestito nuovo nuovo. Si vestì, scese le scale e andò in giardino. Un bellissimo rosaio era fiorito in mezzo ad una aiola. Il mercante si ricordò del desiderio di sua figlia Bellinda e pensò che ora poteva soddisfare anche quello. Scelse la rosa che gli pareva più bella e la strappò. In quel momento, dietro alla pianta si sentì un ruggito e un Mostro comparve tra le rose, così brutto che faceva incenerire solo a guardarlo. Esclamò: - Come ti permetti, dopo che t'ho alloggiato, nutrito, e vestito, di rubarmi le rose? La pagherai con la vita!

Il povero mercante si buttò in ginocchio e gli disse che quel fiore era per sua figlia Bellinda che non desiderava altro che una rosa in dono. Quando il Mostro ebbe sentito la storia, si ammansì; e gli disse: - Se hai una figlia così, portamela, che io la voglio tenere con me, e starà come una regina. Ma se non me la mandi, perseguiterò te e la tua famiglia dovunque siate.

Al poveretto, più morto che vivo, non parve vero di dirgli di sì pur di andarsene, ma il Mostro lo fece ancora salire nel palazzo e scegliere tutte le gioie, gli ori e i broccati che gli piacevano e ne riempì una cassa, che avrebbe pensato lui a mandargliela a casa.

Tornato che fu il mercante alla sua vigna, le figlie gli corsero incontro, le prime due con molte smorfie chiedendogli i regali, e Bellinda tutta contenta e premurosa. Lui diede uno dei vestiti ad Assunta, l'altro a Carolina, poi guardò Bellinda e scoppiò in pianto, porgendole la rosa, e raccontò per filo e per segno la sua disgrazia.

Le sorelle grandi cominciarono subito a dire: - Ecco! Lo dicevamo, noi! Con le sue idee strane. La rosa, la rosa! Ora dovremo tutti pagarne le conseguenze.

Ma Bellinda, senza scomporsi, disse al padre: - Il Mostro ha detto che se vado da lui non ci fa nulla? Allora, io ci andrò perché è meglio che mi sacrifichi io piuttosto di patire tutti.

Il padre le disse che mai e poi mai ve l'avrebbe condotta, e anche le sorelle - ma lo facevano apposta - le dicevano che era matta: ma Bellinda non sentiva più nulla: puntò i piedi e volle partire.

La mattina dopo, dunque, padre e figlia all'alba, si misero in strada. Ma prima, alzandosi per partire, il padre aveva trovato a piè del letto la cassa con tutte le ricchezze che aveva scelto al palazzo del Mostro. Senza dir niente alle due figlie grandi, egli la nascose sotto il letto.

Al palazzo del Mostro arrivarono di sera e lo trovarono tutto illuminato. Salirono le scale: al primo piano c'era una tavola imbandita per due, zeppa di graziadidio. Fame non ne avevano molta, pure si sedettero a piluccar qualcosa. Finito ch'ebbero di mangiare, si sentì un gran ruggito, e apparve il Mostro. Bellinda restò senza parola: brutto fino a quel punto non se l'era proprio immaginato. Ma poi, piano piano, si fece coraggio, e quando il Mostro le chiese se era venuta di sua spontanea volontà, franca franca gli rispose di sì.

Il Mostro parve tutto contento. Si rivolse al padre, gli diede una valigia piena di monete d'oro e gli disse di lasciar subito il palazzo e di non mettervi più piede: avrebbe pensato lui a tutto quel che poteva servire alla famiglia. Il povero padre diede l'ultimo bacio alla figlia, come avesse avuto cento spine in cuore e se ne tornò a casa piangendo da commuovere anche i sassi.

Bellinda, rimasta sola (il Mostro le aveva dato la buonanotte e se n'era subito andato) si spogliò e si mise a letto e dormì tranquilla per la contentezza d'aver fatto una buona azione e salvato suo padre da chissà quali sciagure.

La mattina, s'alzò serena e fiduciosa, e volle visitare il palazzo. Sulla porta del suo appartamento c'era scritto: Appartamento di Bellinda. Sullo sportello del guardaroba c'era scritto: Guardaroba di Bellinda. In ognuno dei begli abiti c'era ricamato: Vestito di Bellinda. E dappertutto c'erano cartelli che dicevano: La regina qui voi siete, / Quello che volete avrete.

La sera, quando Bellinda si sedette a cena, si sentì il solito ruggito, e comparve il Mostro. - Permettete, - le disse, - che vi faccia compagnia mentre cenate?

Bellinda, garbata, gli rispose: - Siete voi il padrone.

Ma lui protestò: - No, qui padrona siete solo voi. Tutto il palazzo e quel che ci sta dentro è roba vostra -. Stette un po' zitto, come sovrappensiero, poi chiese: - È vero che sono così brutto?

E Bellinda: - Brutto siete brutto, ma il cuore buono che avete vi fa quasi bello.

E allora lui, subito: - Bellinda, mi vorresti sposare?

Lei tremò da capo a piedi e non seppe cosa rispondere. Pensava: "Ora se gli dico di no, chissà come la prende!" Poi si fece coraggio e rispose: - Se ho da dirvi la verità, di sposarvi non me la sento proprio. Il Mostro, senza far parola, le diede la buonanotte e se n'andò via sospirando.

Così avvenne che Bellinda restò tre mesi in quel palazzo. E tutte le sere il Mostro veniva a chiederle la stessa cosa, se lo voleva sposare, e poi se n'andava via sospirando. Bellinda ci aveva tanto preso l'abitudine, che se una sera non l'avesse visto, se l'avrebbe avuta a male.

Bellinda passeggiava tutti i giorni nel giardino, e il Mostro le spiegava le virtù delle piante. C'era un albero fronzuto che era l'albero del pianto e del riso. - Quando ha le foglie diritte in su, - le disse il Mostro, - in casa tua si ride; quando le ha pendenti in giù, in casa tua si piange.

Un giorno Bellinda vide che l'albero del pianto e del riso aveva tutte le fronde diritte con la punta in su. Domandò al Mostro: - Perché s'è così ringalluzzito?

E il Mostro: - Sta andando sposa tua sorella Assunta.

- Non potrei andare ad assistere alle nozze? - chiese Bellinda.

- Va' pure, - disse il Mostro. - Ma che entro otto giorni tu sia ritornata, se no mi troveresti bell'e morto. E questo è un anello che ti do: quando la pietra s'intorbida vuol dire che sto male e devi correre subito da me. Intanto prendi pure nel palazzo quel che più ti garba da portare in regalo di nozze, e metti tutto in un baule stasera a piè del letto.

Bellinda ringraziò, prese un baule e lo riempì di vestiti di seta, biancheria fine, gioie e monete d'oro. Lo mise a piè del letto e andò a dormire: e la mattina si svegliò a casa di suo padre, col baule e tutto. Gli fecero una gran festa, anche le sorelle, ma quando seppero che lei era così contenta e ricca, e il Mostro era tanto buono, ripresero a esser ròse dall'invidia, perché loro conducevano una vita che, pur senza mancar di nulla per via dei regali del Mostro, tuttavia non poteva dirsi ricca, e l'Assunta sposava un semplice legnaiolo. Dispettose com'erano, riuscirono a portar via a Bellinda l'anello, con la scusa di tenerlo un po' in dito, e glielo nascosero. La Bellinda cominciò a disperarsi, perché non poteva vedere la pietra dell'anello; e arrivato il settimo giorno tanto pianse e pregò, che il babbo ordinò alle sorelle di renderle subito l'anello. Appena l'ebbe in mano, lei vide che la pietra non era più limpida come prima; e allora volle subito partire e tornare al palazzo.

All'ora di desinare il Mostro non comparve, e Bellinda era preoccupata e lo cercava e chiamava dappertutto. Lo vide solo a cena comparire con un'aria un po' patita. Disse: - Sai che sono stato male e se tardavi ancora m'avresti trovato morto? Non mi vuoi più niente bene?

- Sì che ve ne voglio, - lei rispose.

- E mi sposeresti?

- Ah, questo no, - esclamò Bellinda.

Passarono altri due mesi e si ripeté il fatto dell'albero del riso e del pianto con le foglie alzate perché si sposava la sorella Carolina. Anche stavolta Bellinda andò con l'anello e un baule di roba. Le sorelle l'accolsero con un risolino falso; e Assunta era diventata ancora più cattiva perché il marito legnaiolo la bastonava tutti i giorni. Bellinda raccontò alle sorelle cosa aveva rischiato per essersi trattenuta troppo la volta prima e disse che stavolta non poteva fermarsi. Ma ancora le sorelle le trafugarono l'anello e quando glielo ridiedero la pietra era tutta intorbidita. Tornò piena di paura e il Mostro non si vide né a pranzo né a cena; venne fuori la mattina dopo, con l'aria languente e le disse: - Sono stato lì lì per morire. Se tardi un'altra volta sarà la mia fine.

Altri mesi passarono. Un giorno, le foglie dell'albero del pianto e del riso pendevano tutte giù come fossero secche. - Che c'è a casa mia? - gridò Bellinda.

- C'è tuo padre che sta per morire, - disse il Mostro.

- Ah, fatemelo rivedere! - disse Bellinda. - Vi prometto che stavolta tornerò puntuale!

Il povero mercante, a rivedere la figlia minore al suo capezzale, dalla contentezza cominciò a star meglio. Bellinda l'assistette giorno e notte, ma una volta nel lavarsi le mani posò l'anello sul tavolino e non lo trovò più. Disperata lo cercò dappertutto, supplicò le sorelle, e quando lo ritrovò la pietra era nera, tranne un angolino.

Tornò al palazzo ed era spento e buio, come fosse disabitato da cent'anni. Prese a chiamare il Mostro strillando e piangendo, ma nessuno rispondeva. Lo cercò dappertutto, e correva disperata per il giardino, quando lo vide steso sotto il rosaio che rantolava tra le spine. S'inginocchiò accanto a lui, sentì che ancora il cuore gli batteva, ma poco. Si buttò sopra di lui a baciarlo e a piangere e diceva: - Mostro, Mostro, se tu muori non c'è più bene per me! Oh, se tu vivessi, se tu vivessi ancora, ti sposerei subito per farti felice!

Non aveva finito di dirlo, che d'un tratto si vide il palazzo tutto illuminato e da ogni finestra uscivano canti e suoni. Bellinda volse il capo sbalordita e quando tornò a guardare nel rosaio, il Mostro era sparito e in vece sua c'era un bel cavaliere che s'alzò di tra le rose, fece una riverenza e disse: - Grazie, Bellinda mia, m'hai liberato.

E Bellinda restata di stucco: - Ma io voglio il Mostro, - disse.

Il cavaliere si gettò in ginocchio ai suoi piedi e le disse: - Eccolo il Mostro. Per un incantesimo, dovevo restare mostro finché una bella giovane non avesse promesso di sposarmi brutto com'ero.

Bellinda diede la mano al giovane, che era un Re, e insieme andarono verso il palazzo. Sulla porta c'era il padre di Bellinda che l'abbracciò, e le due sorelle. Le sorelle, dall'astio che avevano, restarono una da una parte una dall'altra della porta e diventarono due statue.

Il giovane Re sposò Bellinda e la fece Regina. E così felici vissero e regnarono.


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