Folk Tale

Uliva

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
ATU706
LanguageItalian
OriginItaly

Accadde una volta che un ricco Ebreo, rimasto vedovo con una bambina appena nata, dovette darla ad allevare in una casa di contadini cristiani.

Il contadino, sulle prime, non voleva pigliarsi l'incarico. - Io ho dei figlioli miei, - disse, - e non posso educare la vostra bambina nella credenza ebrea. Starà sempre insieme ai miei figlioli, e s'avvezzerà ai nostri usi cristiani.

L'Ebreo rispose: - Non importa, dovete farmi il favore di tenerla con voi, e ne avrete ricompensa. Se, quando avrà compiuto dieci anni, non mi vedrete venire a riprenderla, allora fate pure come vi garberà, perché vorrà dire che io non tornerò più e che la bambina resterà con voi.

Così l'Ebreo e il contadino s'accordarono e l'Ebreo andò in viaggio in lontani paesi per i suoi negozi. La bambina fu tenuta a balia dalla moglie del contadino che a vederla così garbata e graziosa le s'affezionò come fosse stata figlia sua; presto imparò a camminare, a giocare con gli altri bambini e a far le faccenduole adatte via via all'età che aveva, ma nessuno le insegnò mai le regole cristiane. Sentiva gli altri dire le loro preghiere, ma lei della religione non sapeva nulla e così senza saperne nulla crebbe fino a dieci anni.

Quando ebbe compiuti i dieci anni, i contadini s'aspettavano da un giorno all'altro di veder comparire l'Ebreo a riprenderla. Ma passò anche l'undicesimo anno, e il dodicesimo, e anche il tredicesimo e il quattordicesimo, e l'Ebreo non si fece vedere. I contadini pensarono che fosse morto, e dissero: - Ormai abbiamo aspettato abbastanza; è tempo di dare il battesimo a questa figliola.

La fecero istruire alla Chiesa, e poi la battezzarono con una gran festa, con tutto il paese che era venuto a vedere. Le misero nome Uliva e la mandarono a scuola, perché imparasse i lavori da donna e anche a leggere e scrivere. Così quando giunse a diciotto anni, l'Uliva era proprio una ragazza ammodo, educata, buona, bella e benvoluta da tutti.

La famiglia dei contadini stava ormai contenta e senza sospetto, quando una mattina sentono picchiare all'uscio. Aprono. Era l'Ebreo. - Sono venuto a ripigliare la figliola.

- Cosa? - esclamò la mamma, - avevate detto che se non tornavate entro dieci anni, ne facessimo quel che ci garbava, perché restava nostra. Sono passati diciott'anni; che pretese volete avere? L'Uliva l'abbiamo battezzata ed è cristiana!

- Questo non m'importa, - rispose l'Ebreo, - se non sono venuto prima è perché non ho potuto. Ma la figlia è mia e io la rivoglio.

- E noi non ve la diamo di sicuro! - gridarono a una voce i contadini.

Ne nacque un gran litigio. L'Ebreo ricorse al Tribunale, e il Tribunale sentenziò che se la figlia era sua non gliela si poteva negare; così quella povera gente fu obbligata a obbedire alla legge. Piangevano tutti, e la più disperata era l'Uliva, perché suo padre era per lei una persona ignota, e con molte lagrime si separò da quei buoni contadini che le avevano fatto da mamma e da babbo per tanti anni.

Al momento della partenza, la donna mise nelle mani dell'Uliva il libro dell'Uffizio della Madonna, e le raccomandò di non dimenticarsi mai che era cristiana. Così si separarono quelle due anime buone.

L'Ebreo, quando fu a casa, per prima cosa disse all'Uliva: - Qui siamo Ebrei e anche tu lo sei, e crederai in quello che crediamo noi. Guai a te se ti trovo a leggere nel libro che t'ha dato la balia: la prima volta te lo butto nel fuoco e ti bastono, la seconda ti mozzo le mani e ti caccio via da casa. Abbi giudizio, perché dico sul serio.

Sotto queste minacce, la povera Uliva in pubblico si dovette fingere ebrea; ma serrata in camera sua diceva l'Uffizio della Madonna e le Litanie, e la sua fida cameriera intanto stava di guardia, perché suo padre non apparisse all'improvviso. Ma tutto fu inutile, perché un giorno l'Ebreo la sorprese sull'inginocchiatoio con quel libro aperto davanti. Subito, con rabbia, glielo scaraventò nel fuoco e cominciò a bastonarla senza misericordia.

L'Uliva non si perse d'animo per questo. Dalla cameriera si fece comprare un altro libro uguale al primo e seguitava a leggerlo. Ma l'Ebreo, insospettito, senza parere la sorvegliava sempre; così fece irruzione nella camera e la sorprese ancora. Stavolta, senza dire una parola, la portò vicino a un pancone, le fece stendere le mani, e con un coltellaccio gliele mozzò nette. Poi ordinò che la conducessero in un bosco e ce l'abbandonassero.

La sventurata restò là più morta che viva, e senza mani non poteva aiutarsi in nessun modo. Camminò camminò finché non vide un gran palazzo. Voleva entrare a chieder un po' di carità, ma tutt'intorno c'era un muraglione alto e senza porte, entro al quale verdeggiava un bel giardino. Dalla cresta del muraglione sporgevano i rami d'un pero burè, carico di pere mature. - Oh! se almeno mi toccasse una di queste pere! - esclamò l'Uliva. - Ma come si fa ad arrivarci!

L'aveva appena detto, che il muraglione s'apre e il pero abbassa i rami, cosicché l'Uliva, anche senza mani, poteva arrivare alle pere coi denti e mangiarsele ancora attaccate all'albero. Quando fu sazia, l'albero risollevò i rami, il muraglione si richiuse, e l'Uliva ritornò nel bosco. Ormai sapeva il segreto, e tutti i giorni alle undici andava sotto il pero a desinare con quei frutti; poi tornava nel folto della macchia dove passava alla meglio anche la notte.

Erano pere molto pregiate, e una mattina il Re che abitava in quel palazzo volle assaggiarne, e mandò il servitore a coglierne qualcuna. Il servitore tornò tutto mortificato: - Maestà, c'è qualche animale che s'arrampica sull'albero e rode le pere lasciando appeso il torsolo!

- L'acchiapperemo, - disse il Re; si fece un capanno di frasche e cominciò a far la posta alla notte, ma ci perdeva il sonno e le pere continuavano a venir morsicate. Allora decise di far la posta di giorno, e alle undici vide il muraglione aprirsi, il pero abbassare i rami e l'Uliva che dava un morso ora a una pera ora all'altra. Il Re, che era già pronto per sparare, lasciò cader lo schioppo dalla meraviglia, e prima che il muraglione non si fosse rinserrato e l'Uliva non fosse sparita, non aveva saputo far nulla, tranne che vedere quant'era bella quella ragazza.

Subito chiamò il servitore e si misero a battere il bosco dappertutto per trovare la ladra. Ed ecco che, nel folto d'un cespuglio, la trovarono addormentata.

- Chi sei? Che fai qui? - le chiese il Re. - Come osi venire a rubare le mie pere? Per poco non ti stendevo lì con una schioppettata!

L'Uliva, per tutta risposta, gli mostrò i moncherini.

- Povera ragazza! - disse il Re. - Che birbone chi ti ha conciato a questo modo! - e si fece raccontare la sua storia. - Non m'importa delle pere, - disse quando l'ebbe sentita, - vieni a stare nel mio palazzo. La Regina mia madre certo ti terrà con sé e t'aiuterà.

Così l'Uliva fu presentata alla Regina, ma il figlio non le disse del pero che s'abbassava e del muraglione che s'apriva, per paura che la madre non la vedesse come una strega e non prendesse a odiarla. Di fatto, la Regina non si rifiutò di prender con sé la ragazza, ma bene non gliene voleva, e le dava da mangiare a spizzico; perché s'era accorta che a suo figlio le bellezze di questa donna dalle mani mozze piacevano un po' troppo. Per togliergli dal capo qualche idea che gli fosse venuta, gli disse: - Figlio mio, è tempo che tu cerchi moglie. Principesse par tuo da sposare ce ne sono tante; prendi servitori, cavalli e quattrini e gira finché non l'hai trovata.

Il Re, per non disobbedire alla madre, partì, e stette fuori sei mesi a visitare le Corti di molti paesi. Ma dopo sei mesi tornò a casa e disse: - Senta, mamma, non s'arrabbi. Di principesse, solo a volerne, al mondo non ne mancano. Ma belle e gentili come l'Uliva non ne ho mai incontrate. Cosicché ho deciso: è l'Uliva quella che sposerò.

- Come? - esclamò la Regina. - Una boscaiola mozza, che non si sa neanche chi è? Vuoi disonorarti? Ma il Re non stette a sentir sua madre, e senza più aspettare fece le nozze con l'Uliva.

Alla Regina vecchia, questa storia d'avere una nuora di stirpe ignota non andava giù: e non risparmiava dispetti e sgarbi all'Uliva, pur cercando di non mettersi in contrasto col Re. L'Uliva, prudente, stava sempre zitta.

In questo mentre l'Uliva si mise ad aspettare un bambino, e il Re era ben contento, quando a un tratto certi altri Re confinanti gli mossero guerra e lui fu obbligato a marciare coi soldati alla difesa del suo Regno. Prima di partire, voleva affidare l'Uliva alla madre, con gran raccomandazioni, ma la vecchia Regina gli disse: - No, non mi posso prendere questo incarico così grave; anzi me n'andrò da palazzo e mi chiuderò in un convento.

L'Uliva dunque restò sola a palazzo, e il Re le raccomandò di scrivergli ogni giorno per corriere. Così il Re partì per il campo, la Regina vecchia per il convento, e l'Uliva restò in Corte con tutta la servitù. Ogni giorno un corriere partiva dalla Corte con una lettera dell'Uliva per il Re, ma nello stesso tempo una zia della Regina vecchia faceva la spola tra la Corte e il convento per informarla di tutto quel che succedeva. Quando seppe che l'Uliva aveva dato alla luce felicemente due bei bambini, la Regina vecchia lasciò il convento e con la scusa d'aiutare la nuora tornò a palazzo, mise su le guardie, obbligò l'Uliva ad alzarsi dal letto, le mise le due creature sulle braccia una da una parte e una dall'altra e ordinò che la riaccompagnassero nel bosco, là dove il Re l'aveva trovata la prima volta.

- Abbandonatela là che muoia di fame, - disse alle guardie. - Pena la testa a chi di voi trasgredisce i miei ordini, e pena la testa a chi ne farà mai parola!

Poi, la Regina vecchia scrisse al figlio che sua moglie era morta di parto insieme alle sue creature, e perché la bugia fosse creduta, fece fare tre fantocci di cera e dispose un gran funerale e seppellimento nella Cappella reale, presentandosi tutta in lagrime e in gramaglie.

Il Re, là alla guerra, non poteva darsi pace di quella disgrazia; e non gli passò neppure per il capo che fosse tutto un tradimento di sua madre.

Ma torniamo all'Uliva, senza mani, in mezzo al bosco, con quei due bambini sulle braccia, che moriva di fame e di sete. Camminò passo passo finché non trovò una pozza d'acqua, dove una vecchina stava lavando i panni.

- Buona donna, - disse l'Uliva, - mi faresti la carità di strizzarmi uno dei tuoi panni bagnati giù per la gola? Muoio di sete.

E la vecchina: - No, fa' piuttosto come ti dico io. Mettiti in ginocchio e abbassa la bocca fino all'acqua.

- Ma non vedete che non ho mani e devo tenere in braccio le mie creature?

- Non importa: provati.

L'Uliva si mise in ginocchio ma mentre si piegava sulla pozza, dalle braccia le scivolarono giù i bambini uno dopo l'altro e sparirono sott'acqua. - Oh, i miei bambini! i miei bambini! Aiuto! Affogano! Aiutatemi!

La vecchina non si mosse.

- Non aver paura, non affogano. Ripescali.

- E come faccio? Non vedete che sono senza mani?

- Tuffa i moncherini.

L'Uliva immerse i moncherini nell'acqua e sentì che le ritornavano le mani e con le mani riacciuffò i bambini e li riportò su sani e salvi.

- Ora vattene pure, - disse la vecchina. - Le mani per aiutarti da te non ti mancano più. Addio -. E sparì, prima ancora che l'Uliva avesse potuto ringraziarla di quel gran benefizio.

L'Uliva camminò a caso nel bosco cercando un rifugio, e trovò una bella palazzina, nuova nuova, con l'uscio spalancato. Entrò a chiedere asilo, ma non c'era nessuno. Sul focolare bolliva un pentolino di pappa e altri cibi più sostanziosi. L'Uliva diede da mangiare ai bambini, mangiò lei, poi andò in una stanza dove c'era un letto e due culle, e mise a dormire i bambini e si coricò anche lei. Così visse in quella palazzina senza che le mancasse niente e senza veder mai anima viva.

Ma lasciamo lei e torniamo al Re che, finita la guerra, ritornò e trovò il paese in lutto. Sua madre cercava di consolarlo, ma lui, più passava il tempo e più era disperato, e per divagarsi volle andare un po' a caccia. Nel bosco lo sorprese una burrasca che pareva che la terra si schiantasse sotto i fulmini e i tuoni. "Magari morissi! - si diceva il Re. - Tanto al mondo, senza l'Uliva, cosa ci sto a fare?" Ma in mezzo agli alberi vide un lumicino e andò là a cercar ricovero. Bussò e aperse l'Uliva. Lui non la riconobbe e lei stette zitta, ma l'accolse con gran premura, e l'invitò ad avvicinarsi al fuoco e a scaldarsi, e si mise a sfaccendare intorno in onore dell'ospite, aiutata dai suoi bambini.

Il Re la guardava e un po' gli sembrava che assomigliasse tanto all'Uliva, ma poi vedendole le mani sane scuoteva il capo. E ai ragazzi che gli saltavano intorno diceva: - Anch'io potevo averli due bambini così per mia consolazione! Ma sono morti con la loro mamma, e io sono qui solo e disgraziato!

Intanto l'Uliva andò di là a preparare il letto per l'ospite e chiamò i bambini: - Sentite, - disse loro piano, - quando torneremo di là, domandate che vi racconti una novella. Io dirò di no, vi minaccerò anche di un paio di schiaffi, ma voi insistete che volete sentire la novella.

- Sì, sì, mamma, faremo come voi ci dite.

Infatti, tornati vicino al camino cominciarono a dire: - Mamma, mamma, raccontateci una delle vostre novelle!

- Ma vi pare! È tardi e questo signore si seccherebbe, stanco com'è!

- Ma sì, mamma, facci questo piacere!

- Se non vi chetate, vi do un paio di schiaffi!

- Perché, poverini? - intervenne il Re. - Accontentateli. Intanto non ho sonno e starò a sentire volentieri.

Così pregata, l'Uliva si sedette e cominciò a raccontare la novella. Il Re a poco a poco si fece serio, l'ascoltava con ansia, continuava a chiedere: - E poi? E poi? - perché era la storia della vita della sua povera moglie. E non osava ancora cedere alle sue speranze perché c'era quel mistero delle mani, finché non resistette più e chiese: - E delle mani mozze, che ne è stato? - E l'Uliva gli raccontò della vecchina lavandaia.

- Allora siete voi! - gridò il Re, e s'abbracciarono e baciarono. Ma dopo aver dato sfogo alla loro felicità, il Re si fece scuro in volto. - Ora bisogna tornare a palazzo, - disse, - e farla pagare a mia madre come merita!

- Questo no! - disse l'Uliva. - Se mi vuoi davvero bene devi promettere che non castigherai tua madre in nessun modo. Ne avrà abbastanza dei suoi rimorsi. E poi, povera vecchia, credeva di fare gli interessi del Regno. Lasciala in vita, ché io le perdono di tutto il male che mi ha fatto.

Così il Re fece ritorno a palazzo, e non disse nulla alla madre. - Ero in pensiero per te, - lei gli disse. - Come hai passato la notte, in mezzo a quella burrasca?

- Bene l'ho passata, mamma.

- E come? - fece la Regina un po' insospettita.

- In casa di buona gente, che mi ha tenuto allegro. È stata la prima volta che mi sono sentito consolato dopo la morte dell'Uliva. Ma di', mamma, è proprio morta, l'Uliva?

- Che domande sono? C'era tutto il popolo a vedere il funerale!

- Vorrei andare a mettere dei fiori sulla tomba, e a veder bene com'è fatta...

- Cos'è questo tono di sospetto? - disse la Regina rossa di rabbia. - Ti pare il tono che deve usare un figlio verso sua madre, quasi mettesse in dubbio quel che dice?

- Andiamo mamma, finiamola con queste menzogne! Vieni, Uliva!

Ed entrò Uliva, con i figli per mano. La Regina da rossa per la rabbia diventò bianca dalla paura. Ma l'Uliva disse: - Non abbia paura, ché noi male non gliene faremo. Siamo troppo contenti della felicità che abbiamo ritrovato.

La Regina tornò a chiudersi in quel convento, e il Re e l'Uliva stettero in pace per tutta la vita.


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