Folk Tale

Il viaggiatore torinese

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
LanguageItalian
OriginItaly

C'era nella città di Torino un uomo benestante con tre figli maschi. Il maggiore si chiamava Giuseppe, un giovane ingegnoso che sempre mulinava in capo l'idea di fare un viaggio: voleva vedere la città di Costantinopoli. Il padre, che voleva dargli moglie per farlo erede e avere da lui una discendenza, non voleva lasciarlo partire; ma Giuseppe non aveva mente ad altro che ai viaggi. Finalmente il figlio mezzano prese moglie, e il padre pensò a lui come a quello che gli sarebbe succeduto nei suoi negozi e avrebbe continuato il suo nome; così si risolse a lasciar partire Giuseppe, che s'imbarcò con un baule pieno di robe e di arnesi e di quattrini, verso la città di Costantinopoli.

In alto mare venne una burrasca, il bastimento trabalzava e i marinai non l'avevano più in mano. Perse la rotta, sbatté contro uno scoglio. Tutta la gente sparì sotto le onde ed affogò. Giuseppe saltato via dalla nave che affondava si mise a cavalcioni del suo baule, che non aveva mai voluto abbandonare, e così restò tutta una notte sballottato nella tempesta, finché il vento non lo trascinò sulle spiagge d'un'isola, mentre il sole spuntava su dal mare che s'andava acquietando. L'isola pareva deserta, benché ricca di alberi e di frutti.

Ma mentre Giuseppe esplorava intorno, ecco che sbuca fuori un branco di selvaggi vestiti di pelli d'animali. Giuseppe andò loro incontro, chiese ospitalità e se volevano trasportargli il baule: ma non c'era verso di farsi capire. Giuseppe tirò fuori una moneta d'oro e la porse ai selvaggi: quelli la guardarono come non sapessero che farsene. Mostrò loro l'orologio, ed era lo stesso che se avesse mostrato il tacco d'una scarpa. Mostrò un coltello, e con esso tagliò il ramo d'un albero: i selvaggi si misero a guardarlo interessati, e molti tesero la mano per avere il coltello. Giuseppe fece cenno che non voleva darlo a nessuno di loro ma a qualcuno superiore a loro, ed essi gli presero il baule in spalla e lo condussero alla grotta dove abitava il loro Re. Tra il Re e Giuseppe si formò presto una vera amicizia. Il Torinese stava nella grotta reale e imparò la loro lingua. Insegnò ai selvaggi molte cose ch'essi non sapevano, per esempio trovò che nell'isola c'era tanta pietra da calcina e terra giglia, e insegnò a cuocere i mattoni e a far le case. Il Re lo nominò Viceré e infine gli offerse sua figlia in sposa. Quest'ultimo onore non garbò al forestiero: sia perché aveva già una bella selvaggia di cui era innamorato, sia perché la figlia del Re era la più brutta ragazza che viaggiatore potesse mai incontrare. Ma era solo, in mezzo a quel popolo incivile, su un'isola da cui non si poteva scappare: guai se perdeva l'amicizia col Re. Dovette acconsentire alle nozze; con la sua innamorata si separarono piangendo, ma sempre d'amore e d'accordo. Giuseppe sposò la figlia del Re, mentre la sua bella, per non dare sospetti, si sposava anche lei, con un vecchio pescatore. Il Torinese, se si guarda agli interessi, non poteva star meglio: non era Re ma poco ci mancava; ma solo una cosa non aveva, ed era il pane della contentezza, e si sentiva rinchiuso lì come uno schiavo. E si pentiva di non aver dato retta a suo padre.

Tutt'a un tratto la figlia del Re s'ammalò e venne a morte. Ci fu gran lutto in tutto il Regno, e il Re poi non sapeva consolarsi di quella perdita, e non smetteva di piangere e lamentarsi. Per consolarlo, Giuseppe gli disse: - Ma senta, Maestà, bisogna in qualche modo rassegnarsi. Lei non ha più la sua figliola, ma resto pur sempre io a tenerle compagnia.

- Eh, - disse il Re, - se piango, non è solo per la perdita di mia figlia, ma anche per la tua.

- La mia perdita? - esclamò Giuseppe. - Che intende dire, Maestà!

- Non conosci le leggi di questi paesi? - disse il Re. - Se muore uno dei coniugi bisogna che l'altro sia seppellito insieme. Le leggi e gli usi lo comandano. Bisogna ubbidire.

Vane furono le proteste ed i pianti di Giuseppe. Cominciò la processione del mortorio. I portantini reggevano la bara della sposa vestita da Regina, e dietro veniva Giuseppe mezzo allocchito dalla paura, e poi il popolo faceva corteo con pianti ed uggiolii. La tomba era una gran caverna sotterranea serrata da un pietrone: là, spostato il pietrone, venivano calati tutti i morti, con le loro ricchezze. Giuseppe volle che con sé fosse calato il suo baule carico di ogni cosa preziosa; e gli diedero anche roba da mangiare per cinque giorni e un lume. Finita la cerimonia rinchiusero la bocca della caverna col pietrone e lo lasciarono là, solo col cadavere.

Giuseppe, col suo lume, volle esplorare bene la caverna. Era piena di morti, alcuni recenti, altri ormai scheletri, e con i morti c'erano tesori d'oro, d'argento e di pietre preziose. E lui pensava a quanto poco tutte quelle ricchezze valessero per lui, condannato a finire lì i suoi giorni per quell'usanza selvatica. Così sedette stanco e disperato sul suo baule e ogni tanto tirava fuori di tasca l'orologio e guardava l'ora e si preparava all'idea della morte. Dopo mezzanotte, udì come un calpestìo, volse gli occhi intorno e vide che nella caverna veniva avanti un animale, qualcosa come un grosso bove. L'animale si avvicinò a un cadavere, lo prese per i capelli con i denti, gli dette uno strattone in aria fino a farselo girare sulle spalle, e col cadavere in groppa se n'andò via e sparì nel buio. La notte dopo alla stessa ora, l'animale tornò, e portò via un altro cadavere. Giuseppe questa volta gli tenne dietro; la caverna finiva in un corridoio in discesa, e dal ribollìo dell'acqua laggiù in fondo capì che finiva in mare. La scoperta lo riempì d'allegria, ormai si sentiva sicuro d'uscir vivo dalla caverna, ma non voleva fuggire a mani vuote, con tutte le ricchezze che aveva a portata di mano. Perciò rimandò la fuga all'indomani, dato che ormai era quasi giorno e non voleva farsi scoprire dagli isolani.

Passò la giornata a preparare la roba che avrebbe portato con sé, quand'ecco, intese il solito canto che accompagnava i funerali, e vide spalancarsi la porta della caverna. Calarono giù il cadavere d'un uomo, e dietro veniva una donna viva, con un lume ed un cesto di cibi. Giuseppe, nascosto dietro un macigno, aspettava che la caverna fosse richiusa per palesarsi a quella compagna di sventura. Essa, visto nel fondo della caverna il baule di Giuseppe, vi s'accostò e piangendo disse: - Povero il mio Giuseppe! A quest'ora lui sarà bell'e morto e a me tocca la stessa barbara sorte -. Allora Giuseppe riconobbe nella donna la sua antica innamorata, che s'era sposata a un vecchio pescatore, ora morto. E uscì fuori e l'abbracciò e le disse: - No che non sono ancora morto, né lo sarò, ma fuggirò con te da questo sepolcro.

La donna, superato il primo spavento e il timore che Giuseppe non fosse già un fantasma, disse: - Nessuno è mai uscito vivo di qui. Come puoi sperare ancora? - Giuseppe le spiegò la sua scoperta, e insieme mangiarono le nuove provviste portate dalla donna, e aspettarono la venuta del bove.

Quando il bove venne e s'ebbe portato via un cadavere, Giuseppe lo seguì pian piano, fino a che vide in fondo alla caverna il luccichìo della luna sul mare, e il bove che nuotava via col morto in groppa. Anche Giuseppe si gettò a nuoto, fece il giro dell'isola, s'arrampicò nel buio fino alla bocca della caverna, e riuscì dopo grandi sforzi a muovere il pietrone. Calò una fune che aveva portato attorcigliata alla vita, e la sua donna che stava ad aspettarlo piena d'ansia laggiù in fondo legava la roba che lui issava fino a sé. Erano le pelli d'animali tolte ai morti e riempite d'oro, d'argento, e pietre preziose; poi per ultimo il baule di Giuseppe, e alla fine la donna.

Quando furono entrambi fuori dalla caverna con la roba, si diressero al confine d'un altro Regno che c'era nell'isola, e riuscirono a passarlo prima che fosse giorno. Presentatisi al Sovrano, raccontarono la loro storia, e furono accolti con generosità nella stessa abitazione del Re.

Giuseppe passò molti anni in quel Regno ed ebbe tre figli maschi. Ma, benché non mancasse di nulla, e fosse diventato primo ministro, aveva sempre il desiderio di tornarsene a Torino, sua città natale. Si costruì una barca, con la scusa di servirsene per suo passatempo, e con essa s'inoltrava nel mare con la moglie per poi ritornare alla spiaggia alla sera, così che il Re non avesse sospetti. Ma in una notte serena, s'imbarcò con la moglie e i figli e il baule e tutte le ricchezze e remò fino a perdere di vista l'isola. E quando al chiaror della luna gli parve di scorgere un bastimento lontano, soffiò nella tromba marina a chiamare soccorso. Era una nave che andava a Costantinopoli. Così Giuseppe vide coronato il sogno della sua giovinezza, andò a Costantinopoli, e con le ricchezze della caverna dei morti aperse una bottega d'orefice e gioielliere; e tornò a Torino ricco e felice dal vecchio padre che sempre l'aspettava.


Text viewBook