Folk Tale

La scommessa a chi primo si arrabbia

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
ATU1029
LanguageItalian
OriginItaly

Un poveruomo aveva tre figlioli: Giovanni, Fiore e Pírolo. Gli venne da star male e chiamò i figli attorno al letto. - Come vedete, figli, son vicino a morire. Non ho da lasciarvi che tre staia di quattrini che ho messo da parte con le mie fatiche; prendetene uno per uno e ingegnatevi -. L'aveva appena detto, che gli venne su un gran sospiro, e morì. I ragazzi si misero a piangere, ma ormai il loro povero padre era andato. Si divisero le tre staia di quattrini una per ciascuno; ma Giovanni che era il piú grande, disse: - Ragazzi, senza far niente non si può stare. Qui ci mangiamo la paglia sotto; andremo a finire su una strada. Bisogna che qualcuno di noi cominci a darsi attorno. Saltò su il mezzano, Fiore: - Hai ragione. Andrò via io a vedere se trovo da far bene -. E l'indomani s'alzò, si lavò la faccia e i piedi, si lustrò gli stivali, prese in spalla il suo staio di quattrini, abbracciò i fratelli e se ne andò. Gira gira, finalmente, verso sera, passando davanti a una chiesa vide l'Arciprete che stava fuori a godersi il fresco. -Faccio riverenza, signor Arciprete, - disse Fiore cavandosi il cappello. - Addio, quel giovane, dove ve ne andate? il mondo, vado, a vedere se trovo fortuna. in quel sacchetto cos'avete? staio di quattrini che m'ha lasciato il mio povero padre. Volete venire a star con me? volentieri. Dovete sapere che anch'io ci ho uno staio di quattrini; e se venite a star con me, faremo un patto: il primo di noi due che s'arrabbia perde il suo staio di quattrini. Fiore accettò. L'Arciprete lo condusse a vedere il pezzo di terra che doveva lavorare l'indomani, e gli disse: - Quando sarete sul lavoro non c'è bisogno che perdiate tempo avanti e indietro per colazione e desinare; vi manderò io da mangiare. -Come volete, signor Arciprete, - rispose Fiore. E andarono insieme a cena, fecero due chiacchiere, e poi la serva piú vecchia lo accompagnò alla sua stanza. Alla mattina Fiore s'alzò di buonora, andò al lavoro, e cominciò a vangare come gli aveva detto l'Arciprete. E cosí continuo fino all'ora di colazione. Aspetta, aspetta, e non veniva nessuno. Fiore cominciò a inquietarsi, a imprecare. E visto che il tempo passava, riprese la vanga e si rimise a lavorare a pancia vuota, aspettando l'ora del desinare. Viene l'ora del desinare, e Fiore aguzzava gli occhi sulla strada per vedere chi arrivava; se s'avvicinava qualcuno pensava subito che fosse la serva dell'Arciprete e riprendeva coraggio, ma poi vedeva che non era lei e imprecava come un turco. Quando fu verso sera, finalmente, arrivò la vecchia, con un mucchio di scuse, che aveva fatto il bucato e non era potuta venire, e tante altre storie. Lui che scoppiava dalla voglia di dirgliene di tutti i colori, si trattenne, perché se no perdeva lo staio di quattrini. Cacciò una mano nella sporta della vecchia, e tirò fuori una pignatta e un fiasco. Fece per aprire la pignatta, ma il coperchio era chiuso che pareva murato con la calce. Fiore mandò all'aria pignatta e tutto, gridando insolenze. - Ma sapete? - diceva la serva con l'aria innocente, - l'abbiamo chiusa cosí perché non c'entrino le mosche. Fiore pigliò il fiasco, ma era chiuso anche quello alla stessa maniera. Lanciò imprecazioni da far cascare i muri, poi disse: - Andate, andate dal signor Arciprete, che poi verrò io a dargli il resto! Gli farò vedere io se è questo il modo di trattare! La serva tornò a casa. L'Arciprete l'aspettava sulla porta. - Com'è andata? Com'è andata? - Bene, bene, reverendo! Ha un diavolo per capello! Dopo poco arrivò Fiore, con un grugno cosí lungo che gli si poteva metter la cavezza, e non era ancora entrato e già aveva cominciato a dirne di tutti i colori all'Arciprete. -Ma non vi ricordate, - disse l'Arciprete, - che abbiamo fatto il patto che il primo che s'arrabbia perde lo staio di quattrini! -Che vada al diavolo anche quello! - rispose Fiore; fece fagotto e se ne andò, lasciandoci lo staio. E l'Arciprete con le sue due serve non si teneva piú dal ridere. Mezzo morto di fame, di stanchezza e di dispetto, Fiore tornò a casa. I fratelli stavano alla finestra, e già a vederlo in faccia capirono che gli era andata male. Quando Fiore, dopo aver mangiato e bevuto, raccontò tutto ai fratelli, Giovanni disse: - Vuoi scommettere che se ci vado io, riporto indietro il mio staio di quattrini, piú quello dell'Arciprete, e piú ancora quello che ci hai perso? Insegnami dove sta e lascia fare a me. Cosí anche Giovanni andò dall'Arciprete, ma anche lui, con la fame e la sete e la storia di quella pígnatta e di quel fiasco, si prese un'arrabbiatura tale che non solo il suo staio, ma altre dieci staia di quattrini ci avrebbe lasciato, se le avesse avute. E tornò a casa affamato e disperato come un ladro. Pírolo, che era il piú piccino di tutti ma anche il piú furbo, disse: - Sentite, fratelli, lasciatemi andare a me. M'impegno a riportarvi i vostri quattrini con quelli dell'Arciprete e tutto -. I fratelli non volevano, per paura che anche l'ultimo staio di quattrini si perdesse, ma lui tanto disse e tanto fece che lo lasciarono andare. Si mise in viaggio, arrivò alla casa dell'Arciprete, ed entrò al suo servizio. Fecero il solito patto di chi si arrabbia prima, e l'Arciprete disse: - Io di staía di quattrini ne ho tre, e ce ne metto tre contro il vostro staío -. Poi andarono a cena, e Pírolo badò a cacciarsi in tasca quanto piú poté di pane, di carne, di prosciutto e di formaggio. Alla mattina, prima che s'alzasse il sole, Pírolo era al lavoro. Quando fu l'ora di colazione, e naturalmente non si vedeva venir nessuno, Pírolo tirò fuori di tasca pane e formaggio e cominciò a mangiare. Poi andò a una casa di contadini, si fece riconoscere per servitore dell'Arciprete e domandò da bere. I contadini gli fecero festa, gli chiesero della salute dell'Arciprete e discorrendo lo portarono in cantina, e gli spillarono una scodella del migliore; cosí ne ebbe abbastanza fino all'ora del desinare. Lui ringraziò, disse che sarebbe tornato piú tardi, e tutto allegro se ne andò a lavorare un altro poco. All'ora di desinare, non si vide ancora nessuno, ma Pírolo aveva con sé pane e companatico, poi tornò a bere del vino, e si rimise a lavorare cantando. Verso sera, ecco che si vede arrivare da lontano una donnetta, la serva vecchia del prete, che portava il desinare. E Pírolo, a cantare. -Scusatemi, quel giovane, se ho tardato... - cominciò la vecchia. - Oh, vi pare! - fece lui. - A mangiare c'è sempre tempo. La vecchia, a sentir questa risposta, restò li; e cominciò a tirar fuori dalla sporta la pignatta col coperchio murato. Lui si mise a ridere. - Oh, bravi, avete pensato a non farci andar le mosche! E col manico della zappa sfondò il coperchio, e si mangiò la minestra. Poi prese il fiasco, col manico della zappa fece saltare il collo e bevve il vino. Quand'ebbe ben mangiato e ben bevuto disse alla vecchia: - Andate pure, che a momento ho bell'e finito il lavoro e vengo anch'io. Ringraziate il signor Arciprete della premura. L'Arciprete aspettava la vecchia a braccia aperte. - Ebbene? Cosa c'è di nuovo? - le chiese. -Va male, - disse la serva. - Quello è allegro come una pasqua. - Sta' tranquilla, vedrai che gli passa, - disse l'Arciprete. Tornò Pírolo e si misero a cena. A cena Pírolo scherzava con le due serve, e l'Arciprete friggeva. - E domani, che lavoro devo fare? - chiese Pírolo. - Sta' a sentire, - disse l'Arciprete, - io ho cento maiali; dovresti andarmeli a vendere al mercato. La mattina dopo, Pírolo con i cento maiali andò al mercato. Al primo mercante che trovò li vendette tutti, tranne una scrofa grossa come una mucca; ma prima di venderli tagliò il codino a tutti, e si tenne novantanove codini di maiale. Si mise i quattrini in tasca e s'avviò verso casa, ma a un certo punto si fermò in un campo, fece tanti buchi con una zappetta e ci piantò i codini, lasciando fuori solo il ricciolo che spuntava da terra. Poi scavò una gran buca e ci ficcò dentro la scrofa, anche a lei lasciando fuori solo il ricciolo del codino. Poi cominciò a gridare:

Corri corri, don Raimondo, Che i maiali vanno a fondo! Van giú tutti a precipizio, Resta fuori solo il ricciolo!

L'Arciprete s'affacciò alla finestra e Pírolo gli fece segni disperati di venire. L'Arciprete accorse. -Guardate se si può essere piú disgraziati! Ero qui con le bestie, e tutt'a un tratto le ho viste tutte sprofondare sotto i miei occhi! Ecco, vedete, hanno ancora il codino fuori! Certo stanno calando nell'Inferno! Proviamo a tirare se riusciamo a salvarne qualcuno! L'Arciprete cominciò a tirare i codini ma gli restavano tutti in mano; Pírolo invece, prese il codino della scrofa, e tira tira, la fece saltar fuori, tutt'intera e viva, che gridava come fosse indemoniata. L'Arciprete stava per saltar su dalla rabbia, ma pensò ai quattrini, si trattenne, fece il disinvolto: - Ebbene, cosa vuoi fare? Eh, è andata cosí! - e s'avviò verso casa, torcendosi le mani. Alla sera, Pírolo domandò, come al solito: - E domani, cosa devo fare? -Avrei cento pecore da portare al mercato, - disse l'Arciprete, - ma non vorrei che succedesse la seconda di quest'oggi. -Diavolo! - disse Pírolo. - Non saremo mica sempre cosí disgrazíati! E l'indomani andò al mercato e vendette le pecore a un mercante, tutte tranne una, che era zoppa. Si mise in tasca i quattrini e si avviò a casa. Quando fu in quel campo del giorno prima, prese una scala lunga lunga che era li in terra, la a poggiò a un pioppo, salì portandosi su la pecora zoppa, e la legò in cima all'albero. Scese, tolse la scala e cominciò a gridare:

Corri corri, don Carmelo, Che gli agnelli vanno in cielo, C'è soltanto quello zoppo Che è rimasto in cima al pioppo.

Accorse l'Arciprete, e Pírolo: - Ero qua con le mie pecore, quando tutt'a un tratto le vedo saltare tutte in aria come se fossero state chiamate in Paradiso. Solo quella povera zoppa là, ha saltato anche lei ma non ce l'ha fatta: è rimasta là in cima. L'Arciprete era rosso come un tacchino, ma riuscí ancora a fare il disinvolto, a dire: - Eh, cosa vuoi, non c'è rimedio, è andata cosí... Quando furono a cena, Pírolo domandò ancora cosa doveva fare. E l'Arciprete: - Figliolo, non ho piú niente da darti da fare. Domattina vado a dir la messa a una parrocchia qui vicino. Puoi venire con me a servire messa. L'indomani Pírolo si levò di buonora, lustrò le scarpe all'Arciprete, si mise una camicia bianca, si lavò il viso e andò a svegliare il padrone. Uscirono insieme; ma appena furono per via cominciò a piovere, e l'Arciprete disse: - Torna a casa a prendermi gli zoccoli; non voglio sporcarmi le scarpe che mi servono per dire messa. io t'aspetto sotto quest'albero con l'ombrello. Pírolo corse a casa, e disse alle serve: - Presto, dove siete? Ha detto il signor Arciprete che vi devo baciare tutte e due!

-Baciare a noi? Ma siete matto? Figuriamoci se l'ha detto l'Arciprete!

E lui: - Tutte e due! Certo! Non ci credete? Ve lo faccio dire da lui! - e affacciandosi alla finestra gridò all'Arciprete che aspettava fuori: - Signor Arciprete, una o tutte e due? - Ma tutte e due, sicuro, tutte e due! - gridò l'Arciprete. -Avete sentito? - fece Pírolo, e le baciò. Poi prese gli zoccoli e corse dall'Arciprete, che gli disse: - Ma cosa volevi che me ne facessi d'una ciabatta sola? Quando tornò a casa, l'Arciprete s'accorse che le serve gli tenevano il muso. - Cosa c'è? - cominciò a domandare. -Cosa c'è? A noi chiedete cosa c'è? Sono ordini da dare, quelli? E non l'avessimo sentito coi nostri orecchi non ci avremmo mai creduto! - E gli dissero del bacio. - Basta, - disse l'Arciprete, - me ne ha fatte troppe; bisogna che lo licenzi al piú presto. - Ma fino a che non canta il cucolo, - gli dissero le serve, non si possono licenziare i lavoranti. -E noi faremo finta che canti il cucolo -. Chiamò Pírolo e gli disse: - Senti, per ora lavoro da darti non ne ho piú. E cosí ti do buona licenza. - Come? - disse Pírolo. - Lo sa bene che finché non canta il cucolo non mi può mandar via. - È, giusto, - disse l'Arciprete, - aspettiamo che canti il cucolo. Allora la serva vecchia ammazzò e spennò un po' di galline, e cucí tutte le penne su un corpetto e su un paio di brache dell'Arciprete. Si vestí tutta di penne e la sera andò in cima al tetto, a cantare: - Cu-cu! Cu-cu! Pírolo era a cena con l'Arciprete. - To', - disse l'Arciprete, - mi pare che canti il cucolo. - Ma no, - disse Pírolo, - siamo appena a marzo, e fino a maggio il cucolo non canta. Eppure, si sentiva proprio cantare: - Cu-cu! Cu-cu! - Pírolo corse a prendere lo schioppo che era appeso dietro al letto dell'Arciprete, aperse la finestra, e. mirò a quell'uccellaccio che cantava in cima al tetto. - Non sparare! Non sparare! - gridò l'Arciprete, ma Pírolo sparò. La serva pennuta cadde giú dal tetto impallinata. L'Arciprete stavolta perse il lume degli occhi: - Pírolo! Levati d'intorno, che non ti veda piú! Perché? Siete arrabbiato, signor Arciprete? si, che sono arrabbiato! allora datemi le tre staia di quattrini e poi me ne vado. Cosí Pírolo tornò a casa con quattro staia di quattrini e in piú tutti i quattrini guadagnato vendendo i maiali e le pecore. Restituí ai fratelli le loro staia e lui mise su una bottega da straccivendolo, prese moglie e visse sempre contento.


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