Folk Tale

La scuola della Salamanca

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
ATU325
LanguageItalian
OriginItaly

C'era una volta un padre che aveva un figlio solo. A questo figlio, che mostrava d'aver la testa fina, disse il padre: - Figlio mio, a forza di risparmi sono arrivato a metter da parte cento ducati uno sull'altro, e vorrei farli raddoppiare. Ma a far dei negozi non mi fido, ho paura di rimetterceli tutti: perché gli uomini, per un verso o per l'altro, sono tanti birbanti, e così non faccio altro che pensare notte e giorno a quel che devo fare, e mi ci mangio le midolla. Tu, dimmi un po' cosa ne pensi? Che ti dice questo tuo cervello?

Il figlio restò un po' in silenzio, come sovrappensiero, e quand'ebbe riflettuto ben bene rispose così: - Tata, ho sentito dire della scuola della Salamanca, dove s'imparano tante e tante cose. Se coi nostri cento ducati posso entrarci, sta' sicuro che quando ne uscirò saprò il fatto mio, e mi basterà darmi un po' da fare perché i quattrini vengano a palate.

Al padre questa pensata piacque, e il giorno appresso, senza perdere tempo, si misero la strada sotto i piedi e camminarono verso la montagna. Cammina cammina, arrivarono a un eremitaggio. - Olà, olà, dell'eremitaggio!

- Olà, olà, chi viene?

- Un'anima battezzata tale e quale a te!

- Qui non canta gallo, qui non luce luna, come cammini tu, anima sola? Porti forbiciglia per tagliare le mie ciglia? Porti forbicioni per tagliare i miei ciglioni?

- Porto forbiciglia, porto forbicioni, per tagliare le tue ciglia, per tagliare i tuoi ciglioni -. Appena detta questa risposta, la porta dell'eremitaggio s'aperse di botto e il padre col figlio entrarono. Tagliarono con le forbici le lunghe ciglia di quel vecchione e quando lui poté alzar le palpebre e vederli gli chiesero consiglio.

L'eremita approvò la loro decisione, fece molte raccomandazioni al ragazzo e alla fine disse: - Quando sarete arrivati in cima a quella montagna lontana lontana, battete il terreno con questa bacchetta che vi do, e da sottoterra vedrete uscire un vecchio più vecchio di me, e quello è il Maestro della Salamanca.

Detto questo, fecero un altro po' di conversazione, poi si salutarono. Per due giorni e per due notti padre e figlio continuarono a camminare, e arrivati che furono in cima alla montagna fecero come aveva detto l'eremita: il monte s'aperse e comparve il Maestro.

Quel povero padre, allora, si buttò in ginocchio e con le lagrime agli occhi gli raccontò perché era venuto fin lassù. Il Maestro, senza commuoversi per nulla, cuore duro come tutti i maestri, si prese i cento ducati e poi fece entrare padre e figlio in casa sua. Li portò in giro per stanze e stanze e stanze, e queste stanze erano tutte piene d'animali, di tutte le specie; lui passava e fischiava, e a quel fischio tutti gli animali diventavano tanti giovanotti, belli come il sole. E il Maestro disse al padre: - Adesso, a tuo figlio non hai più da pensare. Qui sarà tenuto meglio d'un signore; io gli insegnerò i segreti della scienza, e alla fine dell'anno, se riuscirai a riconoscerlo in mezzo a tutti questi animali te lo riporterai a casa coi cento ducati che m'hai dato; ma se non riuscirai a riconoscerlo, resterà con me per sempre.

A queste triste parole, il povero padre si mise a piangere; ma poi, fattosi animo, abbracciò il figlio, lo baciò e ribaciò, e solo solo prese la via del ritorno.

Il Maestro cominciò le lezioni mattina e sera e il giovane imparava al volo e andava avanti con passi da gigante: dopo poco tempo era tanto bravo che era uno di quelli che sapevano fare già da solo. Insomma, quando spirò l'anno, l'allievo aveva raccolto dal Maestro tutto il bene e tutto il male.

Il padre intanto, s'era messo in strada per andarlo a riprendere, ed era disperato, poveretto, perché non sapeva come passare quella prova del riconoscimento in mezzo a tanti animali. Saliva per la montagna quando si sentì intorno del vento, e nel vento, una voce disse: - Vento sono e uomo divento -. Ed ecco che si vide davanti il suo figliolo.

- Tata, - gli disse il giovane, - sta' attento: il Maestro ti porterà in una stanza piena di piccioni; sentirai un piccione che tuba; quello sarò io -. E così detto, - Uomo sono e vento divento, - ridivenne vento e volò via.

Tutto allegro, il padre continuò la via della Salamanca. Giunto sulla cima della montagna, batté con la bacchetta il terreno, e paff! gli si presentò il Maestro. - Sono venuto a ripigliarmi il mio ragazzo, - disse il padre, - e spero che Dio mi faccia la grazia di non confondermi e di farmelo riconoscere.

- Bravo, bravo! - rispose il Maestro, - ma sta' sicuro che non ne cavi niente. Vieni con me.

Lo fece girare da una parte e dall'altra, scendere, salire, tutto per confonderlo, e una volta arrivati alla stanza dei piccioni, - Ora tocca a te: dimmi se qua dentro c'è tuo figlio, che se non c'è passiamo avanti.

In mezzo a quei piccioni, uno bianco e nero che era una bellezza cominciò a far la ronda e a tubare: - Cururù, cururù, - e il padre, senza perder tempo: - Mio figlio è questo, sento che è questo, me lo dice il sangue...

Il Maestro restò con un palmo di naso. Ma che doveva fare? Bisognava che stesse ai patti e restituisse il figlio, e assieme al figlio i cento ducati, cosa che gli dispiaceva ancora di più.

Padre e figlio, felici e contenti, se ne tornarono al paese e appena arrivati invitarono a un bel banchetto i parenti e gli amici e mangiarono e bevvero in allegria. Passato un mese in baldoria, il figlio fece questo discorso al padre: - Tata mio, i cento ducati sono sempre lì, non li abbiamo ancora raddoppiati; e se ci dobbiamo fare una casetta non bastano nemmeno per i mattoni. Allora, cosa ci sono andato a fare alla scuola? Non ci sono andato per diventare uno che sa guadagnare quattrini a palate? Stammi a sentire: domani è la fiera di San Vito a Spongano, io mi farò cavallo con la stella in fronte, e tu mi porterai a vendere. Bada che di certo alla fiera verrà il Maestro e mi riconoscerà, ma tu non mi vendere a meno di cento ducati e franco di cavezza. Non te ne scordare, ché nella cavezza stanno tutte le speranze mie.

Venne l'indomani, il figlio, sotto gli occhi di suo padre, si trasformò in un bel cavallo con la stella in fronte; e andarono alla fiera. Tutta la gente stava a bocca aperta intorno a quella bella bestia, tutti lo volevano, ma appena sentivano che il padrone ne chiedeva cento ducati, si tiravano indietro. Mancava poco alla fine della fiera quando piano piano s'avvicinò un vecchio, guardò il cavallo davanti e di dietro, e disse: - Quanto ne chiedi?

- Cento ducati e franco di cavezza.

A sentire quel prezzo il vecchio bofonchiò un po', cominciò a tirare, a dire che era troppo, ma visto che non lo vendeva per meno, si mise a contare i danari. Il padre stava intascando i danari e non aveva ancora tolto la cavezza al cavallo, quando quel vecchio maledetto, svelto come un cardellino, saltò in groppa al cavallo e via dalla fiera come il vento. - Ferma! Ferma! Devo riprendere la cavezza! Franco di cavezza! - prese a gridargli dietro il padre, disperato, ma non si vedeva più neanche la polvere.

Col maestro sulla groppa, il cavallo correva a suon di legnate; una gragnuola di legnate così fitta che il cavallo sanguinava da tutto il corpo e dopo un po' sarebbe stramazzato a terra, se, per fortuna, non fossero arrivati a una taverna. Il Maestro smontò di sella, condusse il cavallo tutto piagato nella stalla, lo legò alla mangiatoia vuota, e lo lasciò così senza biada e senza acqua con la cavezza al muso.

In quella taverna era a servizio una ragazza così bella che era una cosa da vedersi, e mentre il Maestro era su che mangiava, si trovò a passare per la stalla. - Ah, povero cavallo! - esclamò. - Il tuo padrone dev'essere proprio un cane! Lasciarti così a digiuno assetato e tutto insanguinato! Ora ti governerò io -. Per prima cosa lo portò a bere alla fontana, e per farlo bere meglio gli levò la cavezza.

- Cavallo sono e anguilla divento! - disse il cavallo appena fu senza cavezza, e diventato anguilla si buttò nella fontana.

Il Maestro sentì, lasciò il piatto di maccheroni che stava mangiando e corse giù, giallo dalla rabbia. - Uomo sono e capitone divento! - gridò e si buttò anche lui in acqua, diventando capitone e inseguendo l'anguilla.

Il discepolo non si perse di coraggio, disse: - Anguilla sono e colomba divento! - e paff! volò via dall'acqua, cambiato in una bella colomba. E il mago: - Capitone sono e falcone divento! - E gli volò dietro cambiato in falcone. Volando volando, sempre lì lì per raggiungersi, arrivarono a Napoli. Nel giardino del Re, seduta al fresco sotto un albero c'era la Reginella. Se ne stava cogli occhi per aria, e subito s'accorse della povera colomba perseguitata dal falcone, e le prese tanta pena. Il discepolo appena la vide: - Colomba sono e anello mi faccio -. Diventò un anello d'oro e cascò giù dal cielo sul petto della Reginella. Il falco fece un giro largo largo e s'andò ad appollaiare sulle tegole della casa di fronte.

Alla sera, la Reginella, quando si spogliò, togliendosi il busto si trovò tra le mani quell'anello. Si avvicinò al candeliere per vederlo meglio e sentì queste parole: - Reginella mia, perdonami se sono entrato da te senza chiedere permesso, ma devo salvarmi la vita. Permettimi di mostrarmi nel mio vero aspetto, e ti racconterò tutta la mia storia.

A sentir quella voce la Reginella quasi morì dalla paura, ma poi la curiosità fu più forte e gli diede il permesso di mostrarsi. - Anello sono e uomo divento! - L'anello risplendette più forte e comparve un giovane bello come il sole. La Reginella restò incantata e non gli toglieva più gli occhi di dosso; quando poi seppe tutte le sue virtù e le disgrazie che stava soffrendo, se ne innamorò e volle che restasse con lei. Il giorno il giovane ridiventava anello e lei se lo portava al dito; alla sera, quand'erano soli, riprendeva il suo aspetto umano.

Ma il Maestro non stava in ozio. Un mattino il Re si svegliò spasimando dai dolori. Furono chiamati tutti i medici, gli fecero prendere tutti i farmachi e tutte le spezie, ma i dolori non passavano. La Reginella era in pena, e il giovane ancor di più, perché sapeva che tutto questo era opera del Maestro. Difatti, ecco che si presentò a Palazzo un medico forestiero d'un paese in capo al mondo, e dichiarò che se lo facevano entrare nella camera del Re lui l'avrebbe sanato. Lo fecero subito passare, ma la Reginella vide l'anello che risplendeva più forte e capì che il giovane le voleva parlare. Si chiuse in camera sua, e il giovane le disse: - Ahimè, cos'avete fatto! Quel medico è il Maestro! Guarirà tuo padre, ma per compenso vorrà il tuo anello! Tu di' che non vuoi darlo, ma se il Re ti obbliga, buttalo forte in terra!

Così infatti avvenne: il Re guarì, e disse al medico: - Chiedimi tutto quello che tu desideri, e io te lo darò -. Il medico prima fece finta di non voler niente, ma poiché il Re insisteva domandò l'anello che la Reginella aveva al dito. Lei a piangere, a gridare; finì per farsi venire uno svenimento, ma quando sentì che il Re l'aveva afferrata per la mano per toglierle l'anello di forza, s'alzò tutt'a un tratto, se lo sfilò dal dito e lo sbatté per terra.

Appena l'ebbe gettato, si sentì: - Anello sono e melagrana divento! - La melagrana si ruppe per terra e i chicchi schizzarono per tutta la stanza.

- Medico sono e gallo divento! - disse il Maestro, divenne gallo e si mise a beccare tutti i chicchi uno per uno. Ma un chicco era andato a finire sotto le falde della Reginella che lo tenne lì nascosto.

- Melagrana sono e volpe divento! - disse il chicco, e dalle falde della Reginella saltò fuori una volpe, e si mangiò il gallo in un boccone.

Il discepolo era stato più bravo del Maestro! La volpe ridivenne un giovane, raccontò al Re la sua storia e l'indomani sparavano tutti i cannoni per le nozze della Reginella.


Text viewBook