Folk Tale

Il Re serpente

AuthorItalo Calvino
Book TitleFiabe italiane
Publication Date1956
ATU433
LanguageItalian
OriginItaly

Un Re e una Regina non avevano figli. La Regina faceva voti e penitenze, ma i figli non venivano. Andava per la campagna, e vedeva ogni sorta d'animali: lucertole, uccelli, serpi, tutti coi loro figli, e diceva: - Fanno figli tutti gli animali: chi fa i lucertolini, chi i serpiccioli, chi gli uccellini, e solo io non ne devo fare! - Passò un serpente, con la sua nidiata che gli strisciava dietro. - Anche d'un figlio serpente mi contenterei! - disse la Regina.

Ora accadde che anche lei cominciò ad aspettare un figlio e tutta la Corte era in festa. Venne il giorno della nascita, e le nacque un serpente. La Corte fu costernata, ma la Regina ricordandosi di quel desiderio che aveva espresso, capì d'esser stata accontentata, e volle bene a quel figlio serpente come fosse un bambino. Lo mise in una gabbia di ferro e gli faceva servire da mangiare quel che mangiavano loro: zuppa e pietanza, mezzogiorno e sera.

Il serpente mangiava e cresceva ogni giorno per due. Quando fu grandicello, la cameriera, scesa nella gabbia per rifargli il letto, lo intese parlare. Diceva: Digli a papà / Che una moglie voglio qua, / Bella e ricca!

La cameriera si spaventò e non voleva più scendere nella gabbia. Ma la Regina l'obbligò ad andarci per portargli da mangiare e il serpente tornò a dire: Digli a papà / Che una moglie voglio qua, / Bella e ricca!

La Regina quando la cameriera le riferì, si domandò: "Cosa possiamo fare?"

Chiamò un villano loro mezzadro e gli disse: - Ti do quanto vuoi, basta che mi dài tua figlia.

Si fecero le nozze. Il serpente si sedette a tavola al festino. Alla sera gli sposi andarono a dormire. A una cert'ora il serpente si sveglia e chiede alla sposa: - Che ora è?

Era verso le quattro, e la sposa disse: - È l'ora in cui mio padre s'alza, prende la zappa e va in campagna.

- Ah, figlia di villano sei? - esclamò il serpente, e con un morso alla gola l'ammazzò.

Quando al mattino venne la cameriera a portare la zuppa, trovò la sposa morta. E il serpente disse:

Digli a papà / Che una moglie voglio qua, / Bella e ricca, bella e ricca!

La Regina allora chiamò un ciabattino che stava lì di fronte e che aveva una figlia. Si misero d'accordo sul compenso e le nozze furono fatte.

Verso le cinque, il serpente si svegliò e domandò alla sposa che ora era. - È l'ora, - disse lei, - che mio padre s'alza e si mette a battere al suo deschetto.

- Ah, figlia di ciabattino sei! - fece il serpente e la uccise con un morso alla gola.

Allora la madre chiese la figlia d'un Imperatore. L'Imperatore non voleva dare sua figlia in sposa a un serpente, e si consultò con sua moglie. Questa moglie era la matrigna della ragazza, e non vedeva l'ora di togliersela di torno; così convinse il marito a dare la figlia in sposa al Re serpente. La figlia dell'Imperatore andò sulla tomba della madre e le chiese: - Mamma mia, come posso fare?

E dalla tomba sua madre le rispose: - Sposa pure il serpente, figlia mia. Ma il giorno delle nozze, mettiti sette vestiti uno sopra l'altro. E quando sarà ora d'andarti a coricare, di' che non vuoi cameriere, perché ti spogli da sola. Quando sarai sola con il serpente gli dirai: "Una veste mi levo io, una veste ti levi tu". E tu ti toglierai la prima veste e lui la prima pelle. E poi dirai ancora: "Una veste mi levo io, una veste ti levi tu", e lui si leverà la seconda pelle, e così via.

Avvenne tutto come la madre morta le aveva detto: ogni veste che si levava, il serpente si levava una pelle, finché tolta la settima pelle comparve un giovane di bellezza mai veduta. Si coricarono. Verso le due, lo sposo domandò: - Che ora è?

E la sposa: - L'ora in cui mio padre torna da teatro. E dopo un po': - Che ora è?

- L'ora in cui mio padre si mette a cena.

E quando fu giorno fatto: - Che ora è?

- L'ora in cui mio padre chiama per il caffè.

Allora il Reuccio l'abbracciò e disse: - Tu sei la mia sposa, ma non dire a nessuno che la notte sono cristiano, se no mi perderesti, - e ritornò serpente.

Una notte il serpente le disse: - Se vuoi che ritorni cristiano anche di giorno, devi fare quel che ti dico io.

- Quello che vuoi, marito mio.

- Ogni sera, a Corte, suonano e ballano. Tu ci devi andare. Tutti t'inviteranno a ballare, ma tu non ballare con nessuno. Quando vedrai entrare un cavaliere vestito di rosso, quello sarò io, e tu t'alzerai dalla tua sedia e ti metterai a ballare con me.

Venne l'ora in cui a Corte si teneva società. La Principessa andò a sedersi nella sala. Subito vennero Principi e Marchesi a invitarla a ballare, ma lei disse che stava tanto bene seduta e non si voleva alzare. Al Re e alla Regina sembrò che fosse un po' uno sgarbo verso chi l'aveva invitata, ma pensando che lo facesse per riguardo al suo sposo che non poteva andare a ballare, non le dissero niente.

Tutt'a un tratto, nella sala entrò il cavaliere vestito di rosso. La Principessa s'alzò, si mise a ballare con lui, e con lui ballò tutta la sera.

Finita la festa, il Re e la Regina, appena rimasero soli con la nuora, la presero per i capelli: - Ma cos'hai fatto? Rifiutare gli inviti di tutti e poi metterti a ballare con quello sconosciuto! A noi fai quest'affronto?

Quando andò a coricarsi, la sposa raccontò al serpente che i suoi genitori l'avevano così maltrattata. - Non fa niente, - disse lo sposo, - per tre notti tu dovrai sopportare questo, e alla fine della terza notte io diventerò uomo per sempre. Domani sera sarò vestito di nero. Balla solo con me, e se ti toccherà di buscarne, buscale per amor mio.

La sera, di nuovo, la Principessa rifiutò ogni invito. Ma quando entrò il cavaliere vestito di nero, si mise a danzare con lui.

- Ogni sera ci farai questo scorno? - le dissero poi i suoceri, - così obbedisci a quel che ti diciamo? - Presero un bastone e "donde vengo? vengo dal mulino!" (Nota 1 Dundi vegnu, vegnu du mulinu! (dial. calabrese): "modo proverbiale, per significare che la bastonarono senza pietà".) .

Il marito, quando tutta dolorante e piangente glielo raccontò, disse: - Moglie mia, sopporta ancora, che domani è l'ultima sera. Io verrò vestito da monaco.

E la terza sera, dopo aver rifiutato tutti i notabili della Corte, la Principessa si mise a ballare con il monaco. Il Re e la Regina non ne potevano più di quella vergogna. Presero due bastoni, e davanti a tutti gli invitati, tiritùnghiti tiritànghiti cominciarono a menar legnate su di lei e sul monaco.

Il monaco sotto quella gragnola di colpi, prima cercò di ripararsi, poi non riuscendoci, tutt'a un tratto si trasformò in uccello, un uccellaccio grande che ruppe i vetri e volò via. - Che avete fatto! - disse la sposa. - Era vostro figlio!

Quando seppero che con le loro legnate avevano impedito che il loro figlio si liberasse dall'incantesimo e tornasse uomo per tutta la vita, il Re e la Regina cominciarono a strapparsi i capelli, ad abbracciare la nuora e a chiederle perdono.

Ma la Principessa disse: - Non c'è tempo da perdere -. Prese due sacchetti di danari e se ne andò dietro all'uccello. Incontrò un vetraio, con tutti i vetri rotti, che piangeva. - Che hai, bell'uomo?

- Passò un uccello infuriato e mi ruppe tutta la cristalleria.

- E quanto poteva costare tutta la cristalleria? Perché l'uccello è mio.

- Il mio padrone mi disse che costava cinquanta lire.

La Principessa aperse uno dei sacchetti e lo pagò. - Adesso dimmi da che parte è andato.

- Di qua, volò via dritto!

Cammina cammina, c'era un negozio di orefice. Il padrone non c'era; c'era il garzone, e piangeva. Gli disse la Principessa: - Che hai, bell'uomo?

- Passò un uccello infuriato e mi fece tutto questo danno. Ora torna il padrone e m'ammazza.

- E quanto viene tutto quest'oro?

- Lasciatemi perdere, che ne ho abbastanza di pensieri!

- No, voglio pagarti, perché l'uccello era mio.

Il garzone disse tutti i prezzi, fece una somma che non finiva più. - Seimila lire di danni.

- Tieni. E da che parte è andato l'uccello?

- Sempre diritto.

La Principessa si mise in cammino e il garzone con tremila lire pagò il padrone e il resto se lo tenne per sé e comprò una bottega per conto suo.

Cammina cammina, la Principessa arrivò a un albero, e sull'albero, tra tanti uccelli, riconobbe lo sposo. - Marito mio! - gli disse, - torna a casa con me! - Ma l'uccello non si muoveva.

La Principessa s'arrampicò sull'albero: - Torna a casa con me, marito mio! - e si mise a piangere e a supplicarlo da far compassione anche ai sassi. Tutti gli altri uccelli che erano sull'albero si mossero a pietà e gli dicevano: - Ma vai, vai con tua moglie, perché non vuoi andare?

L'uccello, invece, per tutta risposta, le diede una beccata e le cavò un occhio. La moglie continuava a supplicarlo e a piangere dall'altro occhio, e l'uccello allora le diede una beccata all'altro occhio e glielo cavò. - Non vi vedo più, - diceva la poverina. - Marito mio accompagnami! - E l'uccello, con altre due beccate le mozzò le mani.

Poi volò via, fin sul tetto del Palazzo di suo padre e di sua madre, e ridiventò cristiano. A Corte si fecero grandi feste, e la madre gli diceva: - Hai fatto bene ad ammazzare quella brutta donna!

La Principessa intanto, camminava a tentoni dicendo: - Che ne sarà di me, monca delle due braccia e orba dei due occhi! - quando incontrò una vecchierella. - Che hai, bella giovane?

La Principessa le raccontò la sua storia e la vecchierella, che era la Madonna, disse: - Metti le braccia sotto questa fontanella -. Lei tuffò i moncherini e le ricomparirono le mani.

- Lavati la faccia, ora, - disse la Madonna. Si lavò la faccia e le rispuntarono gli occhi.

- E tieni questa bacchetta. Avrai tutto quello che vorrai.

La Principessa comandò un bel palazzo in faccia a quello del Re, e a un tratto ebbe un palazzo tutto di brillanti dentro e fuori, con una chioccia d'oro con tutti i pulcini che camminavano per le camere, con tanti uccelli pure d'oro che volavano sotto i soffitti, con camerieri e guardaportoni vestiti d'oro; e lei stava seduta su una sedia-poltrona con un baldacchino di velo davanti.

Alla mattina, il figlio del Re, affacciandosi, vide il palazzo. - Papà, papà, - disse, - che meraviglia di palazzo! - e da ogni parte guardasse non vedeva che animali d'oro che camminavano e volavano. - Che gran signori devon essere per far tirare su un palazzo così in una notte!

In quel momento la Principessa s'alzò in piedi e s'affacciò tra i veli, e il figlio del Re la vide. - Papà, papà, che meraviglia di giovane! La voglio in sposa!

- Va' va', chissà chi è? Vorrà proprio a te! Non ti ci provare neanche, tanto non ti vuole.

Ma il figlio del Re s'era intestato, e le mandò un pezzo di canovaccio ricamato d'oro. La bella vicina lo prese e lo buttò alla chioccia e ai suoi pulcini. La cameriera andò a dirlo al Principe. Il Re e la Regina gli dissero: - Non ti vuole, te lo diciamo noi!

- E io invece la voglio! - e le mandò un anello. Lei lo diede a beccare agli uccelli. La cameriera disse che in quel palazzo non voleva tornarci più perché si vergognava.

Allora il Principe, pensa e ripensa, si fece fare una cassa da morto, ci si sdraiò dentro, e si fece portare sotto le finestre della vicina. La vicina, vedendolo nella cassa da morto, scese; quando s'inchinò sulla cassa lui s'alzò e la riconobbe. - Moglie mia! Come sono felice d'averti ritrovata! Perché non ritorni al nostro palazzo?

La moglie lo guardava con occhi duri. - Non ti ricordi quel che mi facesti?

- Ero sotto l'incantesimo, moglie mia.

- Ma per salvarti io ballai con te per tre sere, e i tuoi genitori mi picchiarono.

- Se non facevi così, restavo serpente.

- E quand'eri uccello, ancora eri serpente? M'hai cavato gli occhi e mozzato le mani a beccate!

- Se non facevo così restavo uccello, moglie mia.

Lei ci pensò un po' su, poi disse: - Se è così hai ragione. Torniamo insieme a essere marito e moglie. Il Re e la Regina, quando seppero tutta la storia, le chiesero perdono, invitarono anche suo padre

Imperatore e per un mese intero suonarono e ballarono.


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